Arrivare negli Stati Uniti da campioni in carica in Copa America e da campioni in carica al Mondiale, significa inevitabilmente raccogliere la filigranata etichetta di grandi favoriti del torneo. Il ciclo Scaloni con l’Argentina è stato finora una garanzia che non ha lasciato troppo respiro alle ambizioni di altre, in Copa America quanto a livello intercontinentale. L’ha detto anche Messi, in relazione alla sua volontà di farne parte finché fiato e gambe reggeranno: dopo anni di sofferenza, c’è la consapevolezza di vivere un momento storico e forse unico nel nuovo millennio. Per traguardi e successi, è indubbiamente così.
La partenza dell’Argentina in questa Copa America ha raccontato che la fame è ancora tanta, da crampi allo stomaco. Vero, siamo solo all’inizio, per di più in una competizione – come pressoché qualunque a gironi ed eliminazione diretta – che non regala mai grandi certezze. Ricominciare così, però, in maniera convincente, quasi travolgente in alcuni segmenti, significa che l’Albiceleste c’è.
Una rosa profonda e talentuosa
Più delle etichette, più dei riti profumati di incenso, più della compattezza del gruppo, più della luminosità delle stelle, ciò che rende l’Argentina la più temibile è forse la profondità di una rosa da cui esonda talento. Il lusso di potersi concedere di sostituire Di Maria con Lo Celso, ad esempio, e ottenere addirittura un upgrade nella fluidità della rifinitura, è un elemento di cui pochi possono farsi vanto. Se l’ex Rosario Central sta bene, è un gioiello. O ancora, l’alternanza in attacco che con il Canada ha funzionato chirurgicamente. Con Julian Alvarez titolare e Lautaro Martinez primo sostituto: avercelo, un ballottaggio così.
In New Jersey adesso arriva il Cile di Gareca – che ieri notte ha pareggiato contro il Perù 0-0 -, per un secondo test che profuma come sempre di vendetta per l’Albiceleste. Vincere significa guardare agli ottavi, riposare con il Perù e iniziare davvero a lastricare, ancora una volta, il cammino verso la gloria.