Ricardo Gareca rivolge lo sguardo alle sue missioni e ai suoi obiettivi come un viaggiatore che scruta la cima più impervia della montagna, in lontananza. E puntualmente la sfida. È un tipo di complessione sanguigna, ma forgiato nella matrice di un pragmatismo che classifica la malinconia come un sentimento poco remunerativo. Contempla la fallibilità, perché al di là del suo modo d’essere crede nell’esistenza di un disegno più grande. Lo scorso anno era tornato al Vélez, dove ha vissuto dei capitoli meravigliosi e indelebili, prima come centravanti e poi da allenatore. Le cose, però, sono andate male. Dodici partite, una sola vittoria. Disastro su tutta la linea. Ha deciso lui, di fare un passo indietro, quando ha realizzato che il suo operato non stava portando ai risultati sperati. Ha lasciato sedimentare l’idea della sconfitta per poterla accogliere, assumendosene il carico interiore e ogni suo sottotesto. Acqua che scorre.
Ricardo Gareca è un uomo che ci mette sempre la faccia e conosce il significato del termine gratitudine, e fa anche di più di questo, ma è un professionista insindacabile che non sente di dover spiegare le proprie scelte. È per questa sua natura che pochi mesi dopo l’addio al Vélez ha deciso di sposare il progetto del Cile. Con buona pace dei peruviani. Perché se da un lato il desiderio di una nuova sfida dell’allenatore argentino si intesse alla perfezione con l’esigenza di stabilità della Roja, per cominciare a cucire i primi pizzi delle trame future, dall’altro la narrazione di questo nuovo binomio passa inevitabilmente da quello che Ricardo Gareca ha rappresentato prima. Nello specifico, per il Perù e per il popolo peruviano.
Ricardo Gareca, ad un certo punto della sua carriera, quando la sua zazzera bionda imperversava ancora sui campi da calcio, e non era confinata a un’area tecnica, è stato il Villain della storia calcistica del Perù. È stato un suo gol – il 30 giugno del 1985 – a mandare in frantumi il sogno della Blanquirroja di volare al Mondiale messicano. Quello che poi è diventato il Mondiale di Diego. Daniel Passarella aveva perfino avanzato un tentativo di rubargli la paternità, di quel gol, con un senso di personal branding tutto politico che un paio di decenni dopo gli sarebbe tornato comodo quando è salito alla presidenza del River Plate, ma Ricardo spense subito la polemica, lapidario: «Quel gol è mio».
Ricardo Gareca, poi, da allenatore, è diventato l’eroe–idolo–e–icona del fútbol peruviano. Arco di redenzione. La guida della Blanquirroja l’ha assunta nel 2015. E anche in quel caso, la nuova avventura era stata preceduta da un fallimento senza appello in materia di squadre di club: otto sconfitte in tredici match sulla panchina del Palmeiras ed esonero per direttissima. Non proprio il migliore dei biglietti da visita. Alla fine, però, sappiamo tutti com’è andata. Il Perù che conquista la finale di Copa América arrendendosi solo allo strapotere del Brasile, nell’ultimo atto. Il Perù che torna a giocare la fase finale di un Mondiale, dopo trentasei anni e otto edizioni perse, battendo la Nuova Zelanda negli spareggi.
Ricardo Gareca, dopo aver lasciato la guida del Perù, si è ritrovato una statua eretta in suo onore e numerosi padri di famiglia che hanno insistito per usare il suo cognome come nome di battesimo per i figli appena nati.
Ricardo Gareca, una sera, ha telefonato a un ristorante di lusso di Lima per prenotare un tavolo. Un favore a degli amici di un amico. Glielo fece avere. E gli fece lasciare in ghiaccio una bottiglia di champagne. Prima di lui, quel suo stesso amico, Guillermo Coppola, che è l’ex procuratore di Diego Armando Maradona, si era rivolto al presidente peruviano in persona per rimediargli un posto. E a lui avevano detto di no.
Ricardo Gareca vive per l’autodeterminismo, fa spallucce di fronte alla fatalità. Parecchi anni dopo la sua avventura in Colombia, dove ha giocato per tre stagioni nell’América de Cali, è emersa una storia che lo avrebbe visto nel mirino di Pablo Escobar e del cartello di Medellín. La confessione è arrivata alla luce dalla bocca di John Jairo Velásquez, conosciuto come Popeye per via della sua somiglianza con Braccio di Ferro e considerato uno dei killer più spietati a disposizione del Patron. Velásquez ne ha dette tante, nel corso del tempo. Sostiene di essere stato lui il mandatario dell’omicidio e racconta di avergli piazzato un’autobomba sotto la macchina, ma dice anche di averla tolta all’ultimo. Pare, per ordine e per ripensamento dello stesso Escobar, ma anche qui non sono mai piovute vere conferme.
Ricardo Gareca, quando l’ha saputo, ha risposto così: «Io, in Colombia e a Cali, mi sono sempre trovato molto bene. Mi interessa poco delle cose successe venticinque anni fa».
Ricardo Gareca ha dato un dispiacere immenso al popolo peruviano, che lo amava e lo idolatrava. Nessuno tra i suoi ex tifosi ha osato tacciarlo di tradimento, né tantomeno di irriconoscenza. Molto più semplicemente, fa male a tutti vederlo altrove. Su una panchina che non è la loro. Ricardo Gareca ha deciso di ripartire dal Cile, il Cile ha deciso di ripartire da Ricardo Gareca. La lista dei convocati non è ancora quella definitiva, le due caselle aggiuntive portate dall’ampliamento delle rose a ventisei giocatori non hanno ancora padrone. Forse, i prescelti si sapranno dopo l’amichevole con il Paraguay. L’attesissimo debutto in Copa América, invece, sarà proprio contro il Perù.
Portieri: Bravo (Betis), Cortés (Colo–Colo), Arias (Racing Avellaneda)
Claudio Bravo ha una mentalità decisamente Garec–esque. Ha già deciso cosa vorrebbe fare dopo il ritiro dal calcio, prima un corso di management sportivo e poi entrare in politica. A quarantun anni e dopo una carriera ventennale il ragionamento ci sta tutto. La Copa América, però, era un ultimo e irresistibile canto delle sirene. E lui sentiva di doverlo assecondare.
Giusto pochi giorni fa ha dato l’addio al Betis e al calcio spagnolo, arena di elezione principale della sua vita calcistica e teatro del suo primo e unico gol in carriera: l’aveva segnato su calcio di punizione ai tempi della Real Sociedad (2009–2010), nella stagione della promozione dalla Segunda División, contro il Gimnàstic de Tarragona. Ci si ricorda più facilmente della Confederations Cup del 2017, in cui eliminò il Portogallo ai rigori in semifinale chiudendo la saracinesca su Quaresma, Moutinho e Nani. Un record. È l’unico portiere ad aver parato tutti i rigori in una partita del circuito FIFA.
I suoi compagni di viaggio saranno Gabriel Arias, che è nato a Neuquén, nel cuore della Patagonia, ma fin da piccolo conosceva a memoria l’inno cileno per via dei nonni, di Temuco, e Brayan Cortés. L’estremo difensore del Colo–Colo ha sempre e solo voluto fare il portiere. «Se non poteva andare in porta, scoppiava a piangere e si lamentava, era tipico di lui», ha raccontato mamma Danisa nel programma Mi Primer Hincha. Una volta, per recuperare un pallone, è rimasto incastrato con la testa tra le sbarre di una recinzione: «Sembrava una scena di un cartone animato. Gli altri bambini ridevano. Alcuni lo spingevano da una parte e altri lo tiravano dall’altra: è uscito con le orecchie gonfie». Gli si vuole già bene.
Difensori: Maripán (Monaco), Paulo Díaz (River Plate), Lichnovsky (Club América), Catalán (Talleres), Isla (Independiente), Loyola (Huachipato), Suazo (Tolosa), Galdames (Godoy Cruz)
Jara e Medel sono il passato. Il presente si chiama Guillermo Maripán. Quando si è trasferito dall’Alavés al Monaco (nel 2019) è diventato, in un solo colpo, la cessione più remunerativa del club spagnolo e il difensore cileno più costoso di sempre. Gioca per due, Guillermo, quando scende in campo. Per sé stesso, perché vuole ripercorrere il sentiero ancestrale tracciato dai suoi maestri–predecessori, e per il suo amico di sempre, Hugo Alarcón, con il quale ha condiviso tanti anni nelle giovanili della U Católica prima che venisse tragicamente a mancare nel giorno del suo ventiseiesimo compleanno.
Paulo Diáz e Igor Lichnovsky sono i due principali indiziati per contendersi la seconda casella della titolarità. Un altro Diáz, quell’Hernán che pesa giusto un tantino nella storia del River Plate, lo ha definito a mani basse il miglior difensore centrale del calcio sudamericano. L’ha fatto a ragion veduta. Perché Paulo è letteralmente un capitano senza bisogno della fascia. Di Lichnovsky si parlava già tanti anni fa in ottica Inter e ha un cognome decisamente inusuale per un cileno, ma dice di esserlo «più dei fagioli». Suo nonno, di origine cecoslovacca, fu costretto ad abbandonare il suo paese insieme alla moglie, durante la Seconda Guerra Mondiale, con il figlio di appena un anno – il papà di Igor – nascosto dentro una scatola di scarpe.
Completa il quartetto dei centrali Matías Catalán, del Talleres. È arrivato a vestire la maglia della Roja grazie a… Facebook. E grazie anche a Ricardo García, ex elemento dello staff tecnico di Jorge Sampaoli: «Tutto ha avuto inizio nel 2012, quando Catalán era al San Lorenzo. Passavo il tempo a cercare calciatori su Facebook, in maniera tale da trovarne qualcuno valido per soddisfare le nostre esigenze. È stato davvero utile, perché a quei tempi Facebook era praticamente l’unico social network esistente. Li ho trovato Matías. A volte si ha fortuna». Lo racconta sempre con grande fierezza.
All’Udinese è esploso, alla Juventus non è mai riuscito a imporsi e consacrarsi definitivamente. Mauricio Isla, però, di chilometri, ne ha macinati davvero tanti. Ed è ancora lì a farlo, per l’Independiente e per il suo paese. Le distanze, evidentemente, per lui sono relative. Un giorno, quando aveva dieci anni ed era appena entrato nelle giovanili della U Católica, salì come niente fosse sulla sua bicicletta per andare agli allenamenti. Non aveva realizzato che sulle due ruote il campo di allenamento distava due ore e un quarto da casa sua. Inconsapevolezza giovanile? Chissà. Magari, invece, è lo stesso motivo per cui con trentacinque primavere alle spalle continua a fare su e giù per la fascia.
A destra, con lui, Felipe Loyola. Scarto del Colo–Colo, stella emergente del Huachipato. È tutta questione di prospettive. Nella storica vittoria sul Grêmio dello scorso aprile, nella fase a gironi di Copa Libertadores, ha segnato il gol più prestigioso della sua vita finora. Dicono che Yeferson Soteldo, non proprio l’avversario più semplice da contenere quando è in palla, se la sogni ancora di notte la sua marcatura.
A sinistra, invece, ecco l’esperienza e la polivalenza di Gabriel Suazo. Sette stagioni al Colo–Colo, prima di approdare al Tolosa. Colo–Colo è anche il suo soprannome. Il suo compagno di squadra Moussa Diarra gliel’ha dato e ora non lo chiama in altro modo, nemmeno per nome.
Chiude la linea difensiva Thomas Galdames del Godoy Cruz. Il figlio di mezzo (1998) di una lunga tradizione calcistica famigliare. Suo fratello maggiore, Pablo (1996), lo abbiamo visto in tempi non sospetti con la maglia del Genoa. Il fratello minore Benjamín (2001) gioca in Messico nell’Atlético San Luis ed è l’unico dei tre a giocare in una posizione offensiva. Il padre, anche lui Pablo, ha fatto parte della Roja della dupla Salas–Zamorano e ha giocato parecchi anni in Argentina. Molti, da quelle parti, lo ricordano bene per una rissa sfiorata con Ariel Ortega a margine di una partita tra il suo Quilmes e il Newell’s.
Centrocampisti: Pulgar (Flamengo), Echeverría (Huracán), Núñez (Norwich), Pérez (Unión La Calera), Valdés (Club América)
Dei sei calciatori convocati che provengono direttamente dal campionato cileno tre militano nel Colo–Colo. Tra i prescelti di Ricardo Gareca, però, non figura Arturo Vidal. L’ex Juventus e Inter ha giocato la sua ultima partita con la Roja nel settembre dello scorso anno contro la Colombia, per le qualificazioni al prossimo Mondiale. Lo scorso gennaio è tornato proprio al Colo–Colo, dopo diciassette anni. Praticamente gli stessi che ha trascorso nella Sele. Magari, all’ultimo, potrebbe essere proprio lui, ad afferrare per i capelli uno dei due slot aggiuntivi a disposizione di Gareca. L’uomo di riferimento, per esperienza e leadership, è un’altra vecchia conoscenza della nostra Serie A: Erick Pulgar.
L’ex Bologna e Fiorentina, dopo una breve parentesi al Galatasaray, ha condiviso con Vidal lo spogliatoio del Flamengo per una stagione. Non ha mai tenuto conto del numero preciso, ma la sua vita la racconta attraverso i tatuaggi: dietro il collo ha il nome della madre, Karina. Davanti, quello della nonna. Sul petto, c’è raffigurato il quartiere della sua città, quello dov’è nato e cresciuto. Per chi non se lo ricordasse, dal dischetto, Erick è sinonimo di garanzia: nel 2019 era stato il centrocampista con più rigori trasformati nell’arco dell’anno solare tra i top–5 campionati europei (8 su 8).
Uno che ha buone chance, di imporsi come un titolare nelle gerarchie di Gareca, è Rodrigo Echeverría. Ha conquistato i tifosi dell’Huracán, ma anche le attenzioni del tecnico del Boca Juniors, Diego Martínez, che vede nel cileno il rinforzo ideale per rimpiazzare in mediana il talentuosissimo Ezequiel Fernández, ormai (pre)destinato a volare in Europa.
L’altro profilo che potrebbe stupire è il duttile Marcelino Núñez, che oltre alla mediana può coprire ogni posizione sulla fascia destra. Al Norwich City ci ha impiegato ben poco, per guadagnare consensi. Il suo allenatore, David Wagner, lo ha definito così: «Non si tira mai indietro. È un leone, un combattente nato. Può correre anche per tredici o quattordici chilometri a partita senza problemi, anche giocandone tre a settimana». Se non è un’investitura questa…
Un’affermazione rapidissima, quella di Núñez nel calcio inglese. Anche se all’inizio, Marcelino ha generato un pizzico di confusione. Dalle parti di Norfolk è ormai conosciuto da tutti come Nacho, nomignolo che gli ha dato la sua famiglia da bambino. Ma perché proprio Nacho? In principio, durante le esercitazioni tattiche, Wagner e il suo staff di campo avevano incontrato qualche difficoltà, a dargli indicazioni. Non riuscivano a ricordare di doverlo chiamare Marce. Misunderstanding. Così, Núñez, per farla più sbrigativa, gli aveva suggerito di chiamarlo Maxi. Non sapeva, però, di avere già un compagno di nome Max. Max Aarons. Da qui, ecco Nacho. Ci ha pensato lui, alla fine, a fare ordine. Come fa in campo.
Restando sul sentiero della linea verde, ecco César Pérez. Nel corso del 2023, ha stupito tutti con la maglia dell’Unión La Calera. Per lui, si sono fatte avanti entrambe le U. La U Católica e la U de Cile. Quando queste voci hanno cominciato a circolare con una certa insistenza per il paese, i suoi tifosi, terrorizzati all’idea di vederlo partire, hanno minacciato di riversarsi per le strade della città in segno di protesta. Scusate se è poco.
Diego Valdés rappresenta, invece, un altro tassello di grande esperienza. Ha avuto un’annata decisamente costante con il Club América. Undici gol tra Apertura e Clausura, nella Liga MX. Altri due centri (e tre assist) in Concacaf Champions Cup. Il suo idolo calcistico è Ronaldinho, che come lui ha giocato in Messico, nel Querétaro. Al di fuori del pallone stima molto Novak Djoković. Non lesina sugli spicci di tamarraggine, tra la musica di Daddy Yankee e la sua saga cinematografica preferita, Fast&Furious.
Attaccanti: Sánchez (Inter), Edu Vargas (Atlético Mineiro), Brereton Díaz (Sheffield United), Dávila (CSKA), Maxi Guerrero (U de Cile), Osorio (Midtjylland), Zavala (Colo–Colo), Bolados (Colo–Colo)
Alexis Sánchez e Edu Vargas. Edu Vargas e Alexis Sánchez. Sono sempre loro e sono sempre lì. Ricardo Gareca non ha voluto rinunciare a nessuno dei due.
Se c’è un calciatore che più di tutti rappresenta la generazione dorata cilena, quello è proprio Alexis. Il primatista di presenze e di reti. L’eroe dei due titoli back to back nel 2015 e nel 2016 che ha fatto sprofondare gli argentini nell’isterismo. Alexis è l’equivalente cileno di Messi per l’Argentina e di Cristiano Ronaldo per il Portogallo. Inizierà la competizione come calciatore dell’Inter, ma potrebbe arrivare a metà torneo da svincolato. Bivio. Quel che è certo, tra l’ego e il sano orgoglio, è che Alexis desidera davvero scrivere un altro capitolo indelebile della sua storia con la Roja. Come biasimarlo?
Edu Vargas avrebbe potuto fare molto di più nel calcio europeo, e noi ce lo ricordiamo al top della brillantezza solo per quella tripletta rifilata all’Aik Solna in Europa League, nel 2012, con la maglia del Napoli. Ma Edu Vargas è anche altro, tanto altro. È il secondo miglior marcatore della storia del Cile. È proprio dietro a Sánchez. Ma è anche davanti a Salas e Iván Zamorano. Per dirne due. A distanza di tredici anni, e in ventidue complessivi di storia, nessuno ha messo a segno più gol di Edu in una singola edizione della Copa Sudamericana, quella stravinta con la U de Cile. Undici centri.
Ai tempi, peraltro, il record apparteneva a un suo connazionale, Humberto Suazo, che è stato il primo giocatore ad agguantare la doppia cifra nella storia del torneo con il Colo–Colo. Era il 2006. In anni e anni, a dieci reti, ci sono arrivati solo Braian Romero col Defensa y Justicia nel 2020 e Agustín Álvarez con il Peñarol l’anno seguente. Abbastanza per impensierirlo, ma non per batterlo.
All’appello di Gareca ha risposto presente, e con un certo giubilo, anche Ben Brereton Díaz. È nato a Stoke, ha fatto la trafila per sette anni nelle giovanili del Manchester United e le trame del suo destino sono ormai note a chiunque. Ha anteposto Díaz a Brereton. Calcisticamente. Le radici cilene arrivano dalla madre Andrea, che si è trasferita in giovane età nel Regno Unito per via degli affari nel commercio di ceramiche del padre, Juan, il nonno di Ben. Invece, la sua chiamata con la Roja, getta le sue fondamenta in Football Manager. Mark Hitchen, ricercatore e scout per il videogioco, ha verificato la doppia nazionalità del centravanti e ha aggiornato il database. Al resto ci ha pensato il noto streamer cileno Álvaro Pérez, che una volta effettuata la scoperta ha lanciato una campagna sui social ribattezzata #BreretonALaRoja.
Alla voce esperienza, quantomeno in termini di carta d’identità, si aggiunge anche il nome di Marcos Bolados. L’attaccante ventottenne, al momento, conta solamente sei presenze con la Roja. Pochine, certo. Ma se le è fatte bastare per battere un record. È successo tutto lo scorso 22 marzo, peraltro proprio nel giorno del debutto di Gareca in panchina. Nel netto 3–0 che il Cile ha rifilato all’Albania, il sigillo finale griffato Bolados si è attestato come la rete più veloce siglata da un subentrante nella storia della sua Nazionale. Trentatré secondi dal suo ingresso in campo. Sapete a chi apparteneva questo record prima di lui? A Marce. Anzi, no. Maxi. Anzi, no. A Nacho. Vabbé, ci siamo capiti. A Marcelino Núñez, che nell’ottobre dell’anno scorso era riuscito ad andare in gol contro il Perù dopo centoquattordici secondi.
Nel plotone d’esecuzione offensivo trova spazio anche Cristián Zavala. Caratterino caliente. Il suo sogno è di giocare nel Milan, in futuro. Quando ha lasciato le giovanili del Colo–Colo, ha girovagato per un bel po’. Prima, Magallanes e Coquimbo Unido. Poi, Fernández Vial e Club de Deportes Melipilla. Infine, il Curicó Unido e il ritorno al Colo–Colo.
Già ai tempi del Melipilla, sapeva di poter arrivare dov’è arrivato: «Un dirigente della squadra mi disse che solo due giocatori del club erano riusciti in questa impresa, Steffan Pino e José Luis Cabión. Io gli risposi che sarei stato il terzo». Dopo l’esordio nell’amichevole contro il Messico, il 9 dicembre del 2021, gli ha mandato un messaggio: «Te l’avevo detto, non c’è bisogno che ti dica il mio nome».
Ci sarà anche Víctor Dávila. Sogna di ripercorrere le orme di Mati Fernández. L’ex Fiorentina e Milan è il suo idolo di infanzia e modello di gioco, ma è innegabile quanto l’anima ed il fine ultimo del suo calcio siano molto più di stampo valdiviano: «Il mio sogno è di lasciare il segno nella vita di tanti calciatori del futuro del mio paese».
Tra le seconde linee ambiscono, apprendono e sognano Darío Osorio del Midtjylland e Maxi Guerrero della U de Cile, rispettivamente classe 2004 e 2000.
Osorio ha scelto il campionato danese come sua prima arena d’elezione nel calcio europeo e pare sia riuscito a stregare il Liverpool. Fuori dal campo si dice sia un timidone, quando gioca si trasforma nell’esatto opposto. Estro e irriverenza. Allo stato puro. La passione per il pallone gliel’ha trasmessa sua madre Alicia, che è stata a sua volt una calciatrice: «Mamma ha giocato fino al sesto mese di gravidanza. Era una fantasista. Adesso, ogni tanto, prende parte a qualche partitella». Altre due donne, però, sono state altrettanto importanti nell’infanzia di Darío. Una è l’amata nonna Fresia, che lo accompagnava ovunque tra allenamenti e tornei. L’altra, invece, è Patricia Fernández: «Insegnava nella scuola calcio di Hijuelas. L’ho conosciuta da bambino e non ha mai smesso di prendersi cura di me».
Da piccolo aveva cominciato da difensore centrale, per via della sua stazza (è alto un metro e ottantaquattro), e il ruolo gli piaceva pure, ma dopo essere entrato nel settore giovanile della U de Cile ha pensato più volte di smettere: «Avevo undici anni e viaggiare mi esauriva ancora. Da Hijuelas a La Cisterna c’erano di mezzo due ore di autobus. Spesso mi dovevo alzare intorno alle quattro del mattino perché il ritrovo per le partite era alle sette: arrivavo a certe partite che mi sentivo esausto ancora prima di scendere in campo».
Il successivo trasferimento a Santiago gli ha concesso di evitarsi certe levatacce mattutine, ma non per questo è stato meno traumatico: «In principio è stato davvero complicato adattarmi in una nuova realtà… Piangevo ogni giorno, mi mancava tanto casa. Una volta mi sono ammalato e la mia famiglia è dovuta venirmi a prendere fino a Santiago: ho passato una settimana a casa con loro e gli dicevo che non volevo andarmene di nuovo, ma alla fine mi hanno convinto». Per fortuna che lo hanno convinto. Perché potrebbe essere davvero lui la prossima grande stella del calcio cileno.
Maxi Guerrero non vuole essere da meno: un diamante grezzo, ma dalla crescita costante. Ha iniziato al Deportes La Serena, la squadra della sua città natale in cui ha fatto ritorno nel 2021 per giocare in Primera División cilena dopo una stagione in prestito al Rangers de Talca. Con la U de Cile ha vissuto una discreta annata (3 gol e 3 assist in 15 partite). È soprannominato el Ñuñuki. Tutto un programma.
Lo ha battezzato così l’ex compagno di squadra e senatore dello spogliatoio de La Serena, Rodrigo Brito: «Avevo una macchina. Una Suzuki Celerio. Un giorno, alle otto di mattina, stavo andando al campo di allenamento e ho sentito un’altra macchina che stava accelerando dietro di me. Sì, h sentito il rumore dello schianto, ma mi sono reso conto del danno solo quando sono uscito dall’abitacolo. Non mi sono fatto niente, ma la macchina era in pezzi. Ridotta ad una fisarmonica. Poi, sono andato dai miei compagni di squadra e ho raccontato loro la storia. E a quel punto è uscito il Brito che si è inventato il passaggio da Suzuki a Ñuñuki. Per ricordarmi con ironia che la macchina non c’era più».
La lista provvisoria dei convocati (saranno aggiunti due giocatori)
Portieri: Bravo (Betis), Cortés (Colo–Colo), Arias (Racing Avellaneda)
Difensori: Maripán (Monaco), Paulo Díaz (River Plate), Lichnovsky (Club América), Catalán (Talleres), Isla (Independiente), Loyola (Huachipato), Suazo (Tolosa), Galdames (Godoy Cruz)
Centrocampisti: Pulgar (Flamengo), Echeverría (Huracán), Núñez (Norwich), Pérez (Unión La Calera), Valdés (Club América)
Attaccanti: Alexis Sánchez (Inter), Edu Vargas (Atlético Mineiro), Brereton Díaz (Sheffield United), Dávila (CSKA), Maxi Guerrero (U de Cile), Osorio (Midtjylland), Zavala (Colo–Colo), Bolados (Colo–Colo)