Napoli e Lazio stanno vivendo un momento analogo. Le storie recenti dei due club si sono incrociate diverse volte. Dagli inizi (nel 2004) con due presidenti come De Laurentiis e Lotito entrati, quasi contemporaneamente, nel calcio, al loro impegno, spesso conflittuale, in un mondo dal quale hanno tratto profitto. Stesso modo possessivo di concepire il club, identico coinvolgimento in una seconda squadra, uguale ambizione nel voler governare personalmente qualsiasi situazione. Da quelle di potere istituzionale a quelle societarie. Insomma un protagonismo che spesso li ha uniti, salvo poi separarli fragorosamente per poi riunirli ancora, magari sotterraneamente o pubblicamente. Personalità simili, scontrose, irascibili, litigiose, narcise. Oggi sono tristemente vicini in classifica con problemi analoghi. Del resto, prima del ritorno di Inter e Milan hanno rappresentato le uniche alternative credibili al potere sportivo della Juve in Italia. Hanno vinto coppe Italia e supercoppe italiane in quegli anni fino a raggiungere il secondo posto con Sarri e il primo con Spalletti. Quest’anno, improvvisamente, il blackout. Come mai? Impossibile comprenderne realmente i motivi se non attraverso una attenta lettura economica riflesso della personalità dei due presidenti. Guardate l’ultima vicenda di Luis Alberto che ha clamorosamente annunciato l’interruzione unilaterale del suo rapporto con la Lazio a fine stagione nonostante un ricco contratto pluriennale da poco sottoscritto. Si tratta di quattro milioni più bonus fino al 2028. Una vicenda che, escluso il clamore delle dichiarazioni del giocatore dopo la vittoria sulla Salernitana, trova delle analogie con il fresco rinnovo di Osimhen nel Napoli. Si ha la sensazione che appena le due società abbiano accontato, per venderli o per tenerli, i giocatori più rappresentativi sia poi deflagrato qualcosa negli spogliatoi. Una sorta di desiderio esaudito per pochi e mal digerito dal resto della squadra. Questo accade quando la conduzione troppo paternalistica e palesemente autoritaria crea degli evidenti scompensi in un gruppo che non potrebbe mai trovare coesione e unità di intenti con simili strappi. E qui emerge un’altra considerazione su una figura fondamentale, dopo quella dell’allenatore, in club di queste dimensioni. Stiamo parlando del direttore sportivo (o direttore generale quando esiste questa carica). Giuntoli è andato via dal Napoli, Tare dalla Lazio. Saltati, insomma, i principali referenti per allenatori e giocatori. Quella “zona cuscinetto” che serviva proprio a offrire una camera di compensazione per ogni criticità. Bravi o pessimi che siano stati, Giuntoli e Tare funzionavano, i loro successori no. La Lazio ha preso un allenatore solido come Tudor, ma basterà, da solo, ad arginare tutti quei problemi interni legati a rapporti personali ed economici? Forse si, ma ha bisogno di una mano in società, così come ne avrebbe bisogno anche Calzona sul fronte Napoli. Le scelte estemporanee non hanno mai pagato nel calcio e il successo è sempre frutto di meccanismi delicati. Dovrebbero comprenderlo soprattutto i presidenti.
Paolo De Paola