Nel rispetto di quanto produrrà l’inchiesta (e quindi senza avanzare accuse specifiche contro nessuno) ci sia permesso di ipotizzare che la ricerca del “compromesso” o del “buonsenso” nella vicenda Juan Jesus-Acerbi è assolutamente fuori luogo. Così come non c’entrano le vicende personali. Aver sofferto per una malattia è comune a milioni di persone e non per questo si possono accettare atteggiamenti sbagliati. Anzi, a maggior ragione è giusto tenere distanziati elementi che possono contribuire ad elaborare giudizi errati. La comprensione umana va separata dal facile buonismo. Tutta la vicenda ruota infatti attorno a un’unica parola che è “riflettere”. La norma stessa che viene invocata con l’infrazione dell’articolo 28 “comportamenti discriminatori” del codice di giustizia sportiva conduce a riflettere per la (corretta) pesantezza della condanna perché in una società come la nostra non c’è nulla di spontaneo contro il razzismo che ha bisogno di essere delimitato ed espulso da un retroterra culturale proprio per evitare automatismi o, peggio, menefreghismi. In fondo, si sostiene, dire “nero” durante la trance agonistica equivale a un insulto. Nulla di più, non facciamo i moralisti. E invece non c’è niente di più sbagliato. Qual è il motivo per cui una democrazia avanzata si dota di un complesso di regole se non quello di delimitare la singola libertà di fare ciò che si vuole? Soprattutto quando questa singola libertà è completamente immersa nell’ignoranza. È proprio l’obbligo di far riflettere per capire. E cosa c’è di più atavico e irragionevole del razzismo? Dicono: Juan Jesus dovrebbe “perdonare” due volte. La prima, l’ha già fatto, al termine della partita, ma deve fare di più, anche adesso, per non mettere in ulteriore difficoltà chi non sa come uscire da una situazione scabrosa. Ma ci rendiamo conto? La situazione è completamente ribaltata in un capolavoro di parole senza senso. Invece la verità è che dalle situazioni scabrose si esce con un atto di onestà ammettendo lo sbaglio. E l’applicazione della regola serve a questo. A maggior ragione quando non viene compresa nella sua severità (almeno dieci giornate di squalifica). Ha il valore di una linea, da non superare, tracciata nelle nostre coscienze. Serve proprio per dire: fin lì puoi arrivare, oltre devi fare qualcosa per te stesso. Devi aiutarti per evitare guai, devi capire, devi conoscere, devi, soprattutto, studiare se non ci arrivi da solo. Se non comprendiamo questo aspetto cercando, invece, il solito, stupido, compromesso non afferreremo mai il male che facciamo agli altri e anche a noi stessi con atteggiamenti falsamente paternalistici, ma profondamente ignoranti.
Paolo De Paola