Cristian Brocchi, ex allenatore di Monza e Vicenza, è stato intervistato dalla nostra Giada Giacalone per la rubrica 'Mister Si Nasce'. Partiamo da una data, il 1976: "E' una data importante perché sono nato io. E' un bel giorno, bello fare gli anni a gennaio, quando nasci a gennaio sei un po' più grande degli altri, però dai, diciamo che anche nei miei anni successivi è sempre stato un giorno che mi ha portato abbastanza bene. Sono cresciuto con dei nonni che mi hanno sempre seguito, mi hanno aiutato nel primo percorso soprattutto, quando ero piccino e stavo per iniziare la mia carriera da calciatore. Grazie a mio nonno che va in pensione nell'anno in cui il Milan ha deciso di prendermi e grazie a lui ho iniziato gli allenamenti. Però in un contesto familiare che non mi ha mai messo alcuna pressione, non mi ha mai detto cosa dovevo fare, ma semplicemente hanno fatto il tifo per me".
L'anno della consacrazione a Verona
"L'anno di B era un anno normale, ancora non mi ero reso conto di essere arrivato in una categoria così importante. Ho avuto la fortuna di aver un allenatore meraviglioso, Cesare Prandelli, che mi ha fatto fare quel salto di qualità, formandovi non solo dal punto di vista tattico, di conoscenza e insegnamenti, ma anche di preparazione alle partite".
Milano è la tua città. L'anno dell'Inter lo ricordi col sorriso?
"Non lo ricordo col sorriso per un semplice motivo. Parto dall'aspetto negativo, che è il fraintendimento che c'è stato anche nei confronti dei tifosi. Perché un giorno esce fuori una dichiarazione in cui io avrei detto 'Odio l'Inter', in realtà io non odio nessuno. Ma io sono cresciuto nel Milan e avevo tutta la storia rossonera dentro di me; i dirigenti all'epoca mi avevano detto di fare qualche dichiarazione sui generis e io ho esasperato questo concetto. Poi quando sono andato via ho usato una frase forte, in cui il termine odiare era inteso sotto un altro punto di vista. Avevo avuto una delusione grandissima quando un giorno mi presentai alla Pinetina e non trovai il mio nome sul mio armadietto, ma trovai quello di un altro giocatore. Avevamo parlato di un'ipotesi di scambio col Milan, non sapevo ancora se si fosse concretizzato, ma di certo scoprirlo così non è stato piacevole. La fortuna vuole che era il Milan, perché si parlava di Milan e un'altra squadra. Fortunatamente la trattativa si chiuse col Milan e dissi: 'Torno a casa nella mia famiglia'. Con le persone che mi hanno cresciuto, facendomi diventare uomo con lo studio e i valori, quindi diciamo che quello che in quel momento si rivelava qualcosa di grave, è stata poi la mia fortuna".
Con la maglia del Milan addosso scrivi una storia d'amore, con un intermezzo alla Fiorentina. Mi racconti gli anni dal 2001 al 2005?
"Il primo anno è stato sicuramente complicato, non stavo ancora bene. Dopo un mese e mezzo all'Inter, prima della Supercoppa italiana, mi scoppiano le ernie al disco. Sto fuori tantissimi mesi facendo un'operazione complicata che mi ha cambiato anche come modalità di gioco, facendomi perdere velocità ed elasticità. Mi sono dovuto reinventare, sono diventato più un giocatore agonista. Il primo anno è stato complicato, ma ero a casa nel mio ambiente ideale. Il Milan in quell'anno ha fatto un po' fatica, era l'anno di Terim che fu esonerato, poi è arrivato Ancelotti. Non era l'anno ideale per poter riesplodere, ma mi è servito per farmi conoscere da tutti e prendere confidenza con lo spogliatoio e anche da mister Ancelotti. Da lì è nata una storia incredibile perché abbiamo vinto tutto creando un gruppo meraviglioso. La cosa più importante per me era lavorare, facendomi trovare pronto quando dovevo giocare. Penso di aver sbagliato davvero poche partite al Milan, avevo continuità di gioco e di amore e rispetto per la maglia che indossavo. La società mi aveva dato tutto. Quindi per me è stato in parte più facile per questi motivi. L'anno più facile è stato quando sono andato a giocare a Firenze. Scelta mai più azzeccata, mi richiamò il mio mentore Cesare Prandelli, quindi era anche un qualcosa in più dimostrargli che non aveva sbagliato scelta. Penso di aver fatto una delle stagioni migliori della mia carriera. L'anno dopo il Milan mi rivoleva, la Fiorentina aveva un'opzione su di me da poter esercitare: ci sono stati un paio di malintesi con il grande direttore Corvino (l'ha dimostrato negli anni, aggiunge Brocchi, ndr), una sua frase mi fece rimanere male, quindi questa cosa ha fatto sì che ritornassi al Milan, che mi stava chiamando e mi voleva. Anche questa scelta azzeccata: l'anno dopo vincemmo la Champions, io gioco tantissimo in campionato e in coppa, mi tolgo tantissime soddisfazioni. Sono stati due anni in cui ho fatto davvero qualcosa di buono, esordendo pure in Nazionale".
Si percepisce nelle tue parole l'amore e il rispetto per il Milan. Torniamo alla notte di Manchester, con lo slogan: "Brocchi si nasce, campioni si diventa".
"Quella maglia me l'aveva data un amico a Verona, è stata anche una risposta a qualche mio dirigente amico del Milan, non erano Galliani e Braida. Che quando ero ragazzino dicevano: 'Ma come facciamo a portare al Milan un giocatore che si chiama Brocchi?' Ti immagini la formazione iniziale, uno, due, tre, undici Brocchi. Negli anni c'era sempre la battuta. Il primo articolo che mi fecero al Milan andammo a fare un'amichevole a Saronno, vincendo 6-1, io entrai al posto di Lentini, feci gol, era un periodo in cui la stampa attaccava il Milan. Titolo di giornale? Nasce il Milan dei Brocchi. Allora dissi tra me e me: 'Ecco, in prima squadra non ci potrò più andare'. In realtà la battutina mi ha accompagnato per diversi anni. Quale occasione migliore per ridere di questa cosa. Una volta Crespo mi disse: 'Christian, il mister ti ha messo dentro quando mancava poco. Sei entrato e hai corso come un dannato, stavamo vincendo 3-0 a pochi minuti dalla fine'. Io gli ho detto a Hernan che quei 7 minuti li faccio sempre a tutta. La volta dopo mi conquisterò qualcosa in più. Hernan mi dissi che avevo ragione, quelle parole le ho tenute sempre dentro. La gara dopo l'ho giocata titolare. Per quei sette minuti? Non lo so, sicuramente me li terrò per tutta la vita".
Fallo di Matuzalem: 3 febbraio 2013, poi arriviamo al 10 maggio di quell'anno.
"Matuzalem l'ho difeso tante volte, mi ricordo i fischi del pubblico della Lazio nei suoi confronti. Io non ho smesso di giocare per quel fallo, ma quando l'anno prima, in un Lazio-Juve, mi si rompe il terzo dito del piede e combatto per mesi cercando di recuperare da quell'infortunio. A 36 anni ero ancora titolare nella Lazio e mi sentivo bene, potevo giocare ancora anni e anni, andando avanti ancora perché mi curavo e stavo bene. Faccio mille cure, di tutto per recuperare, andando dai migliori specialisti al mondo. Un giorno mi allenai quattro volte, il mister mi disse che mancava tutto il centrocampo, mi sono fasciato tutto il piede e ho giocato quella partita in condizioni pietose, ero tutto zoppo. In quella circostanza lì il dottore non voleva farmi giocare, io dicevo che non avevo male ma non era vero. Ma quella è stata la fine: prendo quell'entrata di Matu, mi fa male e mi dico di guardare in faccia la realtà. Il piede non reggeva più, quindi mi sono detto che era arrivato il momento di smettere. Con le lacrime agli occhi e tanta fatica. Se c'è una cosa importante per un giocatore è che deve decidere lui quando smettere, non quando lo dicono gli altri. E lo dico anche ai miei compagni che finiscono la carriera litigando con gli allenatori. Non devono essere loro o la società a stabilire quando un giocatore deve smettere, ma te stesso".
Intraprendi quindi la carriera da allenatore, partendo dal settore giovanile del Milan.
"Tutti hanno sempre detto che sono il cocco di Berlusconi, questa cosa l'ho sempre pagata e la pago tutt'ora, al giorno d'oggi mi chiedo perché sia per i tifosi sia per i giornalisti. E' una cosa molto sbagliata. Galliani mi chiamò dicendomi che, se avessi davvero smesso di giocare, gli sarebbe piaciuto avermi come allenatore nel settore giovanile del Milan, tornando a casa ad allenare i ragazzi. Lo ringrazio, dicendo che ci avrei pensato perché non era mia intenzione iniziare ad allenare subito. E poi dopo le cose vanno come devono andare, inizio il percorso da allenatore con gli Allievi del Milan. Un percorso bellissimo ed emozionante: ho conosciuto centinaia di ragazzi meravigliosi in tre anni. Facciamo bene, le squadre giocano bene, abbiamo iniziato un percorso che ha risaltato le mie qualità da allenatore e quello che volevo dalle mie squadre. Questa qualità di gioco viene apprezzata dal presidente, a cui capitò di vedere un paio di partite, tra cui un Milan-Real Madrid in cui giocammo una gara bellissima. Da lì iniziò a chiamarmi per chiedermi quali fossero i giocatori pronti per andare in prima squadra. Una sera mi chiama per andare in prima squadra e gli dico che non sono ancora pronto. Ma non è quando vado in prima squadra, era prima. Gli dico no e capisce. L'anno dopo succede quello che succede, mi chiama e mi dice: 'Non puoi più dirmi di no. Da domani sei l'allenatore del Milan'. Io non potevo davvero dire di no perché ho un rispetto incredibile. Io sono andato a scadenza di contratto ad allenare il Milan, il cocco di Berlusconi avrebbe avuto altri due anni, se non tre, di contratto. Da lì difficoltà grandi, io non volevo andare, al contrario di quello che si diceva. Io pensavo già che avrei allenato il Milan a partire dalla stagione successiva. Lì subentrai a due mesi dalla fine con una squadra in difficoltà, che non aveva la mia mentalità di gioco. Aveva un altro allenatore, molto bravo, con una diversa mentalità di gioco. E' stata un'esperienza meravigliosa, sedersi sulla panchina della mia squadra del cuore è stata anche una grande sofferenza per le mazzate di troppo di tifosi incattiviti che mi criticavano così tanto senza che avessi una colpa reale. Ma fa parte del gioco".
In quei giorni c'è forse la partita più difficile che hai dovuto gestire, con la Roma, quel 4-1. Ci sono le tue frasi del post: "In 20 anni non ho mai visto uno spogliatoio come questo. Forza, rispondetemi, voglio litigare con qualcuno". C'è qualcosa di vero? "Non era stata proprio così la frase, in quel momento avevo bisogno di risposte dai giocatori, capendo quali potessero darmi qualcosa di importante per la finale di Coppa Italia. La Roma era nel massimo dello splendore con grande libertà mentale, noi forse nel momento difficile, in cui la testa di molti era già alla finale. L'interesse era relativo. Lì volevo vedere quali erano i giocatori che potevamo darmi qualcosa di più per la finale. Ho avuto risposte importanti, 6 o 7 non dovevano essere nemmeno lì per alcuni motivi. Quel Milan aveva difficoltà oggettive ma aveva ragazzi con dei valori, molto attaccati alla maglia. Ricordo la preparazione alla fine, tutti hanno dato tutto, nessuno si era tirato indietro e quelle mie frasi avevano toccato cuore e anima dei giocatori. Facemmo una finale di Coppa Italia ottima. Ma nel calcio si dice che conta vincere, noi perdemmo ai supplementari, però giocando bene".
Brescia, Jiangsu Suning e poi Monza, altro capitolo rilevante. Quest'ultima è stata un'esperienza importante per te, visto la promozione ottenuta.
"Molto bello, ho un ricordo meraviglioso di Monza. Anche lì ho avuto dei problemi per il discorso che si faceva prima, insomma. Perché sembrava sempre che io fossi quello che… nessuno ha mai parlato di stima totale per il Brocchi allenatore. Quante squadre hanno investito come il Monza senza riuscire a vincere la C? Noi l'abbiamo stravinta, andando su tutti i campi a giocare un calcio bellissimo, avevamo tutti i numeri dalla nostra. 15 punti di vantaggio quando fu fermato il torneo dal Covid-19. Non era solo questione di avere una squadra importante, abbiamo vinto il campionato al primo vero tentativo. Per me è stata un'emozione grande, a Monza ci sono legatissimo. Ho costruito la mentalità di squadra e persone che ci lavoravano. Adesso fa piacere vedere il Monza in Serie A, anche se non sono stato io a portarlo, siamo arrivati ad un rigore della Salernitana contro il Pordenone al 96' dalla A, a togliermi questo sogno. Però un conto è allenare il Monza in A, che è una cosa meravigliosa, un altro è essere partiti da lì e aver fatto una cosa davvero bella. Mi sento partecipe, sono contento di vedere che un allenatore giovane come Palladino sta facendo bene, perché vuol dire che gli allenatori bravi ci sono, ma devi essere al posto giusto nel momento giusto. Lui è un allenatore bravo che si è trovato al posto giusto nel momento giusto. Io faccio il tifo per lui e per il Monza, società e tutti i tifosi che saranno sempre nel mio cuore".
Questa chiacchierata si chiude con due step che facciamo: c'è un video messaggio di una persona. Il saluto di Matri: "Ciao Cri, ti mando un grande abbraccio tanto ci vediamo tutti i giorni sui campi da padel. Aneddoti ce ne sono tanti da raccontare: ma il più bello è quando ci siamo conosciuti. Lui era in prima squadra, io in Primavera. Tutti i martedì andava nella sala dei preparatori e alla lavagna scriveva: 'Bomber Matri deve giocare sempre. Mandava lui un messaggio all'allenatore della Primavera. Da lì nacque quest'amicizia e ancora non ho capito cosa vide in me'. Ti auguro il meglio per la tua carriera, so quanto ci tieni".
"Matri è il mio fratellino, un po' come le storie d'amore. Tu sei donna, conosci un uomo e ti innamori. Io ho avuto un colpo di fulmine con Ale, è un ragazzo bravissimo. Pensa che mi dava del 'lei', lo prendo ancora in giro per questo. In quel momento lì ho visto un ragazzo meraviglioso con grandi valori, è vera la cosa che lui racconta, ho sempre tifato per lui anche quando ha cambiato squadra. Sono cose che ti escono spontaneamente. Ho tanti amici nel calcio, sicuramente Bobo Vieri è il primo della lista, un fratello importante per me. E Ale è uno di questi".
Chiudiamo con una domanda, che è il nome della rubrica: Mister Si Nasce o Si Diventa?
"Mister per me si nasce, perché non tutti hanno la capacità di essere allenatori. Tutti possono parlare di calcio, soprattutto in Italia. Ma poi per andare sul campo devi averlo dentro. Ho tanti amici fenomenali nelle discussioni di calcio, ma se dovessero andare sul campo davanti a una squadra intera a dirgli cosa fare, non sarebbero in grado. Si nasce e per diventarlo ci sono due fattori: la bravura, dunque la preparazione. Poi quel fattore 'c', che se ce l'hai vai, altrimenti fai fatica".
Mister, hai ancora voglia di allenare?
"La voglia c'è perché è la mia passione: il campo, i ragazzi, ho una marea di giocatori che mi scrivono chiedendomi perché non alleno. Quest'anno ho voluto star fermo perché l'allenatore deve avere anche la forza di dire di no. Non allenare a tutti i costi. L'anno scorso mi ha ferito molto, ma a Coverciano mi hanno detto che l'allenatore è un uomo solo, ed è vero. Deve essere sempre solo (questo lo dico io, precisa Brocchi, ndr) quando allena, quando decide chi fare giocare, come comportarsi col suo gruppo. Quando dai la possibilità a qualcuno di farli entrare nelle tue scelte, la colpa è solo tua, non di quelli che entrano. Io ho fatto questo errore ed è giusto che ne abbia pagato le conseguenze. Avevo bisogno di ripulirmi, di tranquillizzarmi, di smaltire, di ritrovare me stesso a casa. Di venire in questo posto a divertirmi. Perché la mia passione vera è il canto, ma io non sono tanto bravo. Ma avevo bisogno di divertirmi, sfogandomi, di andare in vacanza coi miei figli, guardar loro giocare. Ora sto molto bene. Se dovesse venir fuori qualcosa di molto serio, allora riprenderò. Se devo rincorrere io la professione, andando in situazioni non chiare e che non mi piacciono, allora potrei anche decidere di fare altro".
Ci spieghi il tuo modulo?
"Sai perché mi piace? Perché se alla fine tu guardi, ci sono sempre dei rombi in campo (li indica sull'agenda, ndr). Se occupi così il campo, chi ha la palla ha almeno due, ma anche tre, possibilità di giocata. Quando accade questa situazione, se vuoi comandare il gioco essendo tu il padrone del campo, hai più possibilità di verifica di queste situazioni offensive".
Costruzione dal basso: sì o no?
"Assolutamente sì".