Che il calcio sia costituito da business in gran parte della sua essenza è ormai assodato. Indipendentemente dall’incessante inseguimento di trofei e promozioni, le operazioni di mercato di alcuni club talvolta celano strategie di marketing che poco hanno a che fare con i risultati che arrivano dal campo.
La storia ci parla di operazioni (anche) d’immagine che a stento hanno retto quando club e giocatore erano della stessa portata (vedi Cristiano Ronaldo-Juventus). È così oggi, ma lo era, in parte, anche negli anni ‘80, quando paradossalmente il panorama calcistico mondiale incontrava la sua massima espansione in termini di talento puro e cristallino.
Fu infatti proprio in quegli anni che Johan Cruijff si ritrovò ad essere attore protagonista di un’operazione di mercato (marketing) totalmente disastrosa e fallimentare, che generò problemi finanziari enormi nel breve e lungo periodo.
Era il 1981 e l’asso olandese, agli sgoccioli della sua carriera, scelse di firmare con un club di Serie B spagnola: il Levante.
Tutto nacque da un’indiscrezione del The Sun che portò alla luce il desiderio del tre volte Pallone d’Oro di tornare a giocare per la nazionale olandese in vista di un match di qualificazione ai Mondiali contro la Francia. Per renderlo possibile però, Cruijff doveva giocare in un campionato nazionale europeo.
Il clamore mediatico innescato dal nuovo acquisto del Levante fu immediato, ed insieme ad esso arrivarono i tanto auspicati introiti stellari.
Nel match d’esordio, contro il Palencia, si generò un incasso di cinque milioni di pesetas in un momento in cui mediamente la cifra si aggirava attorno a un milione.
Il sogno durò ben poco però, e appena qualche giorno dopo iniziarono ad arrivare tutti i contraccolpi finanziari di una scelta che si rivelò completamente fallimentare.
Il Levante iniziò a totalizzare una serie di sconfitte e presto fu vanificato l’obiettivo della promozione in prima divisione: quell’anno la squadra chiuse al nono posto.
I risultati sul campo furono però l’ultimo dei problemi di un club che era sceso a compromessi deleteri finanziariamente pur di far vestire la maglia de los granotas (letteralmente “ranocchie”, soprannome del Levante) a Cruijff.
Per far fronte all’ingaggio elevato, la dirigenza escogitò una serie di manovre, alcune di queste passate alla storia per la loro stranezza. È il caso della “tassa Cruijff”: nelle partite in trasferta, le squadre ospitanti dovevano corrispondere metà dell’incasso all’olandese. Un’imposizione che certamente non andò giù a diverse squadre, emblematico in tal senso quanto successo con l’Alaves che si rifiutò di accontentare tale richiesta suscitando la disapprovazione di Cruijff che quel giorno decise di fare rientro a Valencia rifiutandosi di scendere in campo.
Un malcontento che invase anche lo spogliatoio: il Levante, ormai in grande difficoltà economica, non riuscì per mesi a pagare gli stipendi di altri giocatori che decisero dunque di scioperare per protesta.
I dettagli sulle libertà delle quali disponeva Cruijff nel corso della sua parentesi a Valencia quali trattamenti di favore sugli allenamenti e sui vari impegni risultano superflui ai fini dell’analisi economica che si sta tracciando. Meritevoli di attenzione sono piuttosto le conseguenze nel lungo periodo che la permanenza dell’olandese provocò anche dopo la sua partenza: nelle due stagioni successive il Levante subì altrettante retrocessioni e i debiti erano ormai pressoché insanabili.
Ironia del destino, fu proprio Cruijff nel 2007 a “salvare” indirettamente il club dalla bancarotta. Per far fronte alla dilagante emergenza finanziaria, la società decise di vendere un terreno adiacente allo stadio, sul quale l’olandese vantava il 50% del diritto di proprietà. Avrebbe dunque potuto rivendicare metà dell’incasso proveniente dalla vendita, ma scelse di non farlo mettendo fine ad una vicenda che passerà alla storia come una delle operazioni di mercato-marketing più disastrose del panorama calcistico di tutti i tempi.
Ylenia Frezza