Come ogni grande questione che genera dibattito le opinioni si polarizzano, soprattutto poi se il pubblico che vi partecipa è vasto e variegato. Appassionati ed esperti del settore, tifosi e giornalisti: chiunque, oggi, non può che fare parte – direttamente o indirettamente – dell’ormai globale e quotidiana discussione sugli infortuni e su quanto il calendario sia a tal proposito determinante. Soprattutto dopo gli infortuni in rapida successione di Rodri, Bremer, Carvajal e Zapata. Temi di tale portata non presuppongono mai risposte facili, anzi. Già solo il fatto che ci si spinga quasi universalmente a interrogarsi sulla questione, è un indizio importante. Tanto quanto il fatto che la comunità scientifica sia divisa, come lo sono tifosi e semplici fruitori.
La conclusione che sembrerebbe più semplice è proprio la correlazione tra impegni e infortuni: più partite presuppongono una richiesta atletica maggiore e contestualmente segmenti di riposo ridotti. Il sovraccarico e l’usura fisica non sono però la risposta. Quantomeno non l’unica e la più esaustiva. Diversi studi dimostrano quanto il calendario c’entri fino a un certo punto: il fatto che una buona percentuale di questo tipo di infortuni avvengano a inizio stagione, contrasta ad esempio con questa tesi. C’è chi in ambito medico sostiene inoltre che più che la frequenza degli impegni agonistici ad essere un aspetto determinante è il cambiamento del modo di giocare e ciò che viene richiesto al calciatore contemporaneo. Considerazioni che comunque non spostano la necessità di tenere a mente il fattore calendario: senza pause e con impegni così ravvicinati e prolungati, il rischio infortuni almeno in parte si amplifica.