Singolare diktat quello stabilito in casa James tra padre e figlio: necessario per la coesistenza di LeBron e Bronny sul parquet
L’ingresso di Bronny James nel roster dei Los Angeles Lakers, un sogno che il padre LeBron ha cullato per anni, solleva un dibattito delicato e, al contempo, affascinante. È raro che padre e figlio si trovino a condividere il parquet in una delle squadre più blasonate dell’NBA. Da un lato, questa è la realizzazione di un sogno condiviso e un segno di continuità familiare nella pallacanestro. Dall’altro, c’è chi potrebbe considerare inopportuno, o addirittura destabilizzante, il fatto che un padre e un figlio lavorino a stretto contatto in un ambiente così competitivo e sotto i riflettori costanti della stampa e del pubblico.
LeBron James è determinato a far sì che la convivenza con suo figlio Bronny nei Lakers non solo funzioni, ma diventi un esempio di professionalità. Per garantire che tutto proceda senza intoppi, LeBron ha imposto una regola piuttosto bizzarra e inusuale ovvero che Bronny non potrà chiamarlo ‘papà’ mentre si trovano all’interno delle strutture dei Lakers.
Questa decisione, resa pubblica dallo stesso LeBron durante un’intervista è volta a mantenere un ambiente di lavoro rigoroso e professionale. “Non può chiamarmi ‘papà’ all’interno delle strutture. Lo abbiamo già stabilito. Una volta terminato l’allenamento potrà essere di nuovo ‘papà’, al ritorno, a casa, potrò essere ‘papà’ io” ha dichiarato LeBron con la sua solita sicurezza. La necessità di separare il ruolo di padre da quello di compagno di squadra evidenzia quanto LeBron sia consapevole delle difficoltà che potrebbero sorgere se questi due mondi si sovrapponessero.
Ma questa regola, sebbene comprensibile nel contesto di un ambiente infinitamente competitivo come l’NBA, ha un aspetto straniante che non può essere ignorato. Immaginate la confusione di Bronny, abituato da una vita a rivolgersi al proprio padre con l’affettuoso appellativo di ‘papà’, costretto a ricorrere a un distaccato ‘Bron’ o, come ha scherzosamente suggerito LeBron, a chiamarlo ‘G.O.A.T’, acronimo di ‘The Greatest Of All Time’ (il più grande di tutti i tempi). “Puoi chiamarmi 23, puoi chiamarmi Bron. O sai, GOAT se vuoi”, ha aggiunto LeBron con una punta di ironia, riferendosi ai numeri di maglia che lo hanno reso celebre.
La regola imposta da LeBron al figlio suo compagno di squadra ai Lakers
Questa singolare imposizione solleva non poche domande su come Bronny vivrà questa esperienza. Crescere all’ombra di un gigante come LeBron James non è certo un compito facile e ora Bronny dovrà anche adattarsi a trattare suo padre come un semplice compagno di squadra, con tutto il carico emotivo che questo comporta.
LeBron, per parte sua, minimizza la questione, sostenendo che per lui sarà facile adattarsi, dal momento che ha sempre chiamato suo figlio ‘Bronny’ e mai ‘figlio’. “È facile per me perché l’ho sempre chiamato Bronny, non è come se lo chiamassi ‘figlio’. Non possiamo correre lungo il campo e fargli dire: ‘Papà, passami la palla’” ha spiegato LeBron, quasi a voler sdrammatizzare un’immarcescibile situazione che, per Bronny, potrebbe rivelarsi più complessa di quanto sembri.
Intanto, la proprietaria della squadra, Jeanie Buss, invita i tifosi alla calma ribadendo che Bronny deve avere il tempo e l’opportunità di dimostrare il proprio valore. “Dobbiamo lasciare che il ragazzo abbia l’opportunità di giocare e dimostrare che dovrebbe indossare la divisa dei Lakers. Lavora duro, ha dedizione e vuole davvero fare questo” ha detto Buss, cercando di stemperare le critiche che hanno accompagnato la scelta del giovane James nel draft.