Quello che ho visto in Germania agli Europei

Non sono stati degli Europei come tutti gli altri. E non parlo della qualità del calcio. Si fa un gran discutere di campionati più noiosi ma non è vero: 6 delle 7 ultime partite, le più importanti, sono state al cardiopalma, un numero in linea con la maggioranza delle edizioni, e poco inferiore agli ultimi campionati contando anche gli Ottavi. Quello che è cambiato è che sono sparite le stelle e i punti di riferimento, quindi si impoverisce l’immaginazione.

Ma come detto non è al calcio che mi riferisco quando parlo di Europei diversi da tutti gli altri.

È stato il mio nono grande torneo da inviato tra Mondiali e Europei, il tredicesimo se considero anche Copa America e Olimpiadi.

Per ciascuno saprei dirne l’unicità a prescindere dal fare una semplice classifica.

Stavolta qualcosa è stata differente. Nel paese, nell’evento, nell’atmosfera generale.

Sicuramente in qualche maniera ha concorso dall’organizzazione logistica del paese ospitante, che è un argomento differente rispetto a quanto spetti all’Uefa.

Diciamo che pur nelle ovvie differenze strutturali ad esempio del vivere un Europeo in Austria o un Mondiale in Sudafrica, un’Olimpiade a Londra o a Rio de Janeiro; e facendo comunque la tara agli standard organizzativi del luogo, il tratto comune è sempre stato aiutare l’avventore, il forestiero, per metterlo nelle migliori condizioni pur nelle differenze e nelle difficoltà di chi organizza e magari non ha preparato qualcosa al meglio.

Stavolta non è stato minimamente così. Non si discute la gentilezza umana dei tedeschi, ma semplicemente è crollato il mito della efficienza logistica tedesca.

Hanno avuto come primo obiettivo la sicurezza, e li si può comprendere. Anche se pure lì, una sicurezza evidentemente applicata con il paraocchi se così tante invasioni di campo sono state possibili.

Ma soprattutto gli è completamente sfuggito dalla vista il concetto di pensare l’evento al servizio di chi viaggia da un altro paese e viene a scoprirti. Nessuna non dico concessione, ma nemmeno propensione a offrirsi – al di là delle fan zone, circuito ormai collaudato degli eventi, ma che in sé sono state anche piuttosto prevedibili nell’intrattenimento, e pensate più come uno strumento per alleggerire il problema della folla (sono anche quello per carità, ma dipende come le realizzi).

La logistica in sé poi ha raggiunto vette grottesche: sicuramente non è semplice muoversi in un paese così ampio come la Germania, ma l’inaffidabilità dei treni in alcuni frangenti è stata epica, con l’apice inedito dell’Olanda costretta ad annullare addirittura le conferenze della vigilia della finale a causa dei ritardi ferroviari.

Per non parlare della struttura di steward con ampie difficoltà nello spiegarsi in lingua inglese, con annessa confusione per i tifosi in arrivo con i mezzi o in macchina.

Ma questi sono appunti afferenti all’inefficienza logistica, ma non è nemmeno di questo che si tratta, una stucchevole lista di lamentele di chi torna da un torneo.

La questione è molto più profonda.

Diciotto anni fa ero in Germania per i Mondiali, il mio ultimo torneo da tifoso. E nel paese c’era una febbre irrefrenabile che contagiava tutto. Certo, il Mondiale è per definizione qualcosa di più travolgente dell’Europeo, ed è altrettanto certo che il percorso della squadra ospitante aiuti l’entusiasmo.

Ma è stato troppo differente per spiegarlo così.

Quello che è successo è che ai tedeschi ha fatto piacere ospitare l’evento, sono stati compiaciuti dalla festa, ma non l’hanno vissuta come qualcosa di irripetibile, cosa che dovresti invece sentire per una eventualità che per bene che ti vada puoi vivere ogni 20 anni.

Venti anni fa per loro il Mondiale fu una febbre unica: si percepiva in ogni aspetto della vita quotidiana, gioiosamente sconvolta e paralizzata da quello che succedeva intorno.

Stavolta, la loro vita è proceduta uguale, e guardavano divertiti ma distaccati. In Germania mi spiegavano che due motivi principali concorrevano a questo: la crisi economica rispetto al 2006, che ridefinisce le priorità della vita (posto che noi firmeremmo per avere una crisi economica come la loro…); e poi nel 2006 fu la prima volta nel dopoguerra in cui si potè esibire la bandiera tedesca con orgoglio per un evento che accadeva in casa, senza che si rischiasse un senso di colpa nei confronti del passato nazista.

A questi motivi endogeni io però ne aggiungo un terzo, il più importante, che riguarda tutti i tifosi coinvolti non solo quelli di casa, e che va alla base del discorso.

Per la prima volta in 13 grandi competizioni che ho coperto da giornalista (più altre 3 da tifoso), non ho visto nei tifosi la percezione del senso di straordinarietà per quello che stavano vivendo.

Tranne qualche eccezione, in generale è come se la maggioranza desse per scontato che avvenisse l’Europeo. “Sappiamo che queste festa succede ogni 2 anni, bello ma non è straordinario”.

Come se non percepiscano più come invece questo che si rinnova ogni 2 anni è un piccolo miracolo, è il mondo come vorremmo che fosse,  tutti che si incontrano per divertirsi assieme senza differenze. È l’utopia irraggiungibile che però come l’orizzonte ci motiva ad andare avanti per raggiungerlo.

Forse 3 anni fa c’era l’euforia del sopravvivere al covid e per questo era stato respinto il pericolo di non valorizzare il regalo che ci viene dato.

In un momento storico in cui la guerra è tristemente tornata a essere parte della nostra vita quotidiana, non diamo per scontati gli Europei e i Mondiali: perché non lo sono, sono l’acqua fresca in cui ogni 2 anni possiamo risciacquare i panni della convivenza tra culture.

E non c’è obiettivo più alto a cui il calcio possa ambire.

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