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Calcio

La Copa America ai raggi X – Uruguay e Bielsa, voglia di splendere

Un bel giorno, al quartier generale dell’AUF (l’Asociación Uruguaya de Fútbol) hanno deciso di far salire di un bel po’ le temperature sul termometro dell’hype, in vista della Copa América. Il problema, ma problema solo per modo di dire, è che hanno sparato l’asticella dei gradi alle stelle. E non potrebbe essere altrimenti, le cose non possono andare in un’altra maniera, del resto, quando decidi di affidare la panchina a Marcelo Bielsa. La barra del mercurio era inevitabilmente destinata a esplodere. Alla sua presentazione ufficiale, come nuovo DT dell’Uruguay, allo stadio del Centenario, si sono contati più di duecentocinquanta giornalisti accreditati. Non rilascia interviste intime da quasi un ventennio, ma agli appuntamenti istituzionali non manca mai.

La narrazione di Marcelo Bielsa si aggruma nelle particelle di un passato carico di misticismo e di retorica. La sua visione del calcio e il temperamento da Loco sono il simulacro delle sue scelte, dei suoi bivi, dell’influenza che l’ombra della sua figura ha proiettato su generazioni e generazioni di allenatori. È arrivato alla guida della Selección uruguaiana per sostituire Diego Alonso, dopo l’assurda e impronosticabile eliminazione nella fase a gironi del Mondiale qatariota. È al suo terzo incarico, alla guida di una Nazionale, dopo l’Argentina e il Cile. Il secondo straniero a sedersi sulla panchina della Celeste. Prima di lui, solo il connazionale Daniel Passarella.

Alla prima conferenza stampa, chiunque ha potuto toccare con mano la sua voglia di calarsi in questo nuovo progetto: «Non mi dovevano convincere. Direi quasi che era il contrario. La mia voglia di appartenere a questo nuovo corso arriva da due punti che ho considerato fondamentali. Il primo è che mi piace il gruppo di giocatori che hanno rappresentato l’Uruguay negli ultimi anni. L’altro punto invece sono i destinatari di questa Selección, del suo gioco e dei suoi risultati: il popolo uruguaiano».

Bielsa ha scoperto il popolo uruguaiano vivendolo. Un giorno propose a sua moglie di trascorrere un fine settimana a Montevideo. Sono rimasti lì per due mesi perché, semplicemente, ci stavano bene. Un’altra volta hanno organizzato una gita fuori porta a Carrasco e hanno scelto di tornare indietro con i mezzi pubblici. Su un bus affollatissimo, in un viaggio di circa quarantacinque minuti piuttosto accidentato e problematico, non ha potuto fare a meno di notare con ammirazione la pazienza delle persone presenti. Nel 2015, invece, stava facendo una passeggiata su lungomare di Montevideo, adora le zone di Pocitos e Punta Carretas, ma doveva andare in bagno. Entrò in un edificio lì vicino e chiese gentilmente alla receptionist il permesso di utilizzare la toilette. Non sapeva di essere finito nella sede di Oceano FM, una delle stazioni radio più ascoltate del paese. Praticamente il sogno di ogni giornalista, ritrovarsi dinnanzi a Marcelo. E il sottoscritto non fa eccezione.
Ha a disposizione un gruppo molto giovane, ma con numerosi profili che rappresentano già una garanzia. Da Valverde a Ugarte, da Araújo a Giménez, da Bentancur a Darwin Núñez. Non roba da poco. Il Girone C ha tutto l’aspetto di un test, per affinare il gioco e le intese, ma deve concludersi con un primo posto. Panama e Bolivia non possono rappresentare degli scogli. Gli Stati Uniti rappresentano l’insidia maggiore, forse, ma se l’ambizione è quella di tornare davvero ad essere grandi questo pensiero non può essere contemplato. Bielsa lo sa. E lavora per riportare l’Uruguay alla gloria, l’unica via.

Portieri: Rochet (Internacional), Mele (Junior de Barranquilla), Israel (Sporting Lisbona)

Sergio Rochet osserva una situazione, coglie segnali e – semplicemente – agisce. Questione di senso pratico innato, di decisioni intraprese in pochi secondi come di frequente capita ad un portiere. Ha cominciato come centrocampista, nella sua Nueva Palmira. E il ruolo gli piaceva. Parecchio. Poi, un bel giorno, in un’amichevole giocata a Dolores, il suo compagno di squadra Camilo Frascheri incassa tre gol in cinque minuti e non vuole saperne più niente di tornare tra i pali. Rochet se li mette così, i guantoni, per la prima volta. Decide in fretta. Certo, quando viene convocato per giocare coi più grandi continua a divertirsi e dispensare palloni, in cabina di regia, ma il sentiero ormai è tracciato. Danubio e AZ Alkmaar, Sivasspor e Nacional Montevideo sono il suo passato. L’Internacional de Porto Alegre e l’eredità di Fernando Muslera nella Celeste incarnano il suo presente.

Parava con quel che aveva, il piccolo Sergio, perché di soldi in casa ce n’erano pochi e allora mamma Graciela gli rammendava i guanti come poteva. Spiccava tra i suoi coetanei anche nelle corse scolastiche di atletica. Di sicuro, il fiato e la resistenza non gli mancavano. «Una volta siamo andati a disputare un torneo giovanile dalle parti di Carmelo, ognuno viaggiava per conto proprio con i genitori. Nel trambusto, prima di fare ritorno a casa, Sergio è sceso dalla macchina per comprarsi uno snack e sua madre non se n’è accorta. Non c’erano i cellulari e lui ha solamente cominciato a camminare come se nulla fosse, si è fatto quindici chilometri a piedi». La storia è cortesia di Sebastián Sayas, il suo allenatore nella Sub–15 ai tempi del Nueva Palmira e figlio del presidente Julio.

Il secondo nome della lista è Santiago Mele. L’estremo difensore del Junior de Barranquilla coniuga la sua carriera calcistica a un’iniziativa sociale denominata Mucho Más. Nella stagione in cui ha giocato in Argentina con l’Unión de Santa Fe, ad esempio, ha organizzato un incontro con Los Buhos FC, la squadra di calcio per non vedenti che rappresenta la provincia. A margine dell’evento, al quale hanno preso parte anche tanti suoi compagni di squadra, sono stati donati diversi palloni e tanto altro materiale tecnico essenziale per il campo. Poi, lo stesso Mele, ha anche partecipato ad un allenamento della squadra.

Non si limita a donare, Santiago. Ci crede davvero, in questa iniziativa. Ogni volta che firma un contratto con un club cerca di inserire negli accordi una “clausola sociale”. Invece, alle volte, concorda determinati obiettivi sportivi da raggiungere nel corso della stagione sfidando – positivamente, si intende – la società a realizzare delle donazioni. Al Plaza Colonia (2020–2021), regalò svariato materiale a una squadra composta da ragazzi affetti da sindrome di Down. Nel proprio contratto con le Patatas Blancas, ad esempio, aveva concordato un gesto di solidarietà ad ogni rigore parato.

Franco Israel è il più giovane dei tre portieri convocati (classe 2000) da Bielsa e alcuni lo ricorderanno per il biennio trascorso nella Juventus Under 23. In bianconero, ha avuto anche l’opportunità di allenarsi svariate volte con la Prima Squadra. Una volta, in particolare, è stato selezionato da Cristiano Ronaldo per una sfida sui calci di punizione tra il fuoriclasse lusitano, Paulo Dybala e Federico Bernardeschi. Parte alla grande. Fa un miracolo, con la mano di richiamo, proprio su CR7. Subito dopo, però, compie una piccola papera su una conclusione non irresistibile di Bernardeschi. E Cristiano – un tipino poco competitivo, vero? – se la prende: «Uruguaiano! Mi stai prendendo per il culo?».

Difensori: Giménez (Atlético Madrid), Araújo (Barcellona) Marichal (Dinamo Mosca), Sebastián Cáceres (Club América), Varela (Flamengo), Nández (Cagliari), Viña (Flamengo), Olaza (Krasnodar), Mathías Olivera (Napoli)

José Maria Giménez e Ronald Araújo trasmettono la sensazione di essere due ragazzi con cui vorresti fare amicizia, danno l’idea generale di essere tipi simpatici, ma in campo sono l’esatto opposto. Ovvero gli ultimi che vorresti dover affrontare. Quando non era ancora maggiorenne, Giménez pensò di chiudere sul nascere la sua carriera calcistica per trovarsi subito un lavoro e aiutare economicamente la sorella di quattordici anni, rimasta incinta: «Non avevo ancora un contratto da professionista e non guadagnavo alcun stipendio. Ricevevo solo i soldi per i biglietti del bus. Mio padre aveva una motoretta e lavorava in una bottega, mentre mia madre era una casalinga. Di soldi non ce n’erano molti. Quel giorno ho pianto davanti ai miei genitori. Presi coraggio, poi dissi loro che quel bambino sarebbe nato e che sarei stato io a prendermene cura. Dissi ai miei procuratori che avrei lasciato il calcio…».

Lo stesso anno ha firmato con l’Atlético Madrid, di cui oggi è il ventesimo calciatore con più presenze (318). Invece, con l’Uruguay le partite giocate sono ottantaquattro e il suo esordio con La Celeste lo ricorda meglio Radamel Falcao che lui stesso. «Non riuscivo a concentrarmi perché Giménez mi faceva impazzire, ha iniziato a farmi domande a caso. Prima mi ha chiesto che macchina avevo, ma mentre glielo spiegavo lui se ne era già andato a contrastare altri avversari. Ma quello era solo l’inizio, purtroppo. Mi ha chiesto perché le bandiere del Venezuela, dell’Ecuador e della Colombia hanno gli stessi colori. Poi è venuto da me per dirmi che quello era il suo debutto in Nazionale e che siccome era molto felice voleva farsi tatuare la data dell’incontro, chiedendomi se “septiembre” si scriveva con o senza la “p”. Mi ha fatto sbagliare un gol», ha raccontato il colombiano. 

Araújo forse non parla quanto il suo compagno di reparto, ma resta uno di quelli che la voce in campo la fa sentire eccome: «È una questione di indole, ero così già da bambino», dice lui. Tra i vari allenatori passati sulla panchina del Barcellona negli ultimi tempi, Ronald Koeman ha sempre posto l’accento sulla sua ossessione per il lavoro negli allenamenti. Xavi ci ha visto un vero leader, i media spagnoli «uno dei pochissimi difensori capaci di annullare Vinícius con il corpo, la velocità e l’anticipo». Se non sono investiture queste. Negli anni non sono mancate le chiamate dalla Premier League, per lui, ma prima di salutare il Barça nel 2020, proprio Luis Suárez gli ha dato un consiglio importante: «Se vuoi i soldi vai in Inghilterra, se vuoi la gloria resta qui al Barcellona: un giorno tornerete a vincere».

Gli altri due centrali scelti da Bielsa sono Nicolás Marichal (2001) e Sebastian Cáceres (1999). Il futuro può essere anche loro. D’altronde, l’11 gennaio del 2020, Marichal aveva in programma di grigliare insieme a un po’ di amici e guardarsi in televisione l’amichevole tra Nacional e River Plate. E poi, si è ritrovato a giocarla. Così ha debuttato, seppur non in maniera ufficiale, col club di Montevideo. Cáceres fino allo scorso gennaio sembrava piacere parecchio al Torino. Si dice che Bielsa creda molto nel suo potenziale: «Mi ha dato diversi consigli, mi ha spiegato che quando rimango concentrato molte delle mie caratteristiche difensive risaltano. In questo senso, ho lavorato molto. Sul tema del mantenimento della concentrazione», ha raccontato alcuni mesi fa.

Sull’out di destra c’è Varela. Un cognome pesantino. Perché il ricordo di ogni uruguaiano va subito al grande Obdulio, al Maracanazo e alla sindrome tutta brasiliana dei viras latas. Quello che sappiamo di Guillermo, è che ha avuto una carriera strana e curiosa: Peñarol, poi subito il Manchester United e un prestito stagionale al Real Madrid Castilla. Poi di nuovo il Manchester United, una manciata di presenze senza infamia né lode e un nuovo prestito, questa volta all’Eintracht Francoforte. Lì in Germania, decide bene di farsi un tatuaggio quattro giorni prima della finale di DFB Pokal, che gli si infiamma e porta l’allenatore Niko Kovač a metterlo fuori rosa per indisciplina. Poi torna al Peñarol per un anno. Riattraversa l’Atlantico e fa ritorno in Europa. Un anno di Copenaghen e un biennio alla Dinamo Mosca. Infine, il Flamengo.

C’era pure in Qatar. Eppure, non aveva giocato nemmeno una gara delle qualificazioni al Mondiale. 

Immancabilmente e senza sorprese, c’è anche Nahitan Nández. Per almeno un lustro è stato ad un passo da Inter, Juve e Roma con una cadenza quasi inquietante per la sua regolarità. Ha detto addio al Cagliari quasi da bandiera, in un videomessaggio in cui gli vengono gli occhi lucidi, per l’Al–Qadsiah. Fin dalle giovanili del Peñarol, pur non somigliandogli per niente, calcisticamente, era soprannominato El Pequeño Rooney. Voleva essere un coup de théâtre del sottoscritto, quest’ultimo. Il fatto che ami la pesca, le auto sportive e i tatuaggi l’avevano già detto tutti.

A sinistra saranno in tre a contendersi i galloni della titolarità. Il primo lo conosciamo. E anche bene. Mathías Olivera attende di fare la conoscenza di Antonio Conte al Napoli e si gonfia d’orgoglio quando ripensa alla moltitudine di sacrifici compiuti dalla sua famiglia per aiutarlo a coltivare la sua passione. Il padre Camilo e la mamma Ximena lo hanno avuto quando erano a malapena adolescenti, rispettivamente a diciassette e sedici anni. Correvano per i centri commerciali per trovargli delle Total 90 scontate. Perché Mathías, sui campi, ha cominciato a scorrazzarci quando non ne aveva nemmeno quattro, nel Club Carabelas.

Il secondo candidato è un’altra conoscenza della nostra Serie A, quel Matías Viña che a gennaio si è unito al Flamengo dopo due annate in prestito complessivamente deludenti con il Bournemouth e il Sassuolo. Non c’era più spazio, per lui, alla Roma. Ma lui non si è abbattuto. Non l’ha mai fatto. Come nel 2014, quando si è fratturato una clavicola che lo ha tenuto fermo per quasi un anno ai tempi delle giovanili del Nacional. «Matí era un esempio di perseveranza. Incredibilmente quel bruttissimo infortunio lo ha aiutato a crescere fisicamente e lo ha rafforzato. Ha ricevuto il premio che merita per la sua dedizione, per la voglia di migliorare e di crescere che ha sempre dimostrato di avere» aveva detto di lui Carlos Rodao, uno dei suoi primi allenatori, dopo il suo debutto con La Celeste nel settembre del 2019.

Infine, nella spedizione, c’è anche Lucas Olaza. Anzi, Lucas René Olaza. René in omaggio a suo nonno, che a sua volta è stato un calciatore, un attaccante. Impazzisce per la macedonia. Di frutta. Il paese balcanico non lo ha ancora visitato.

Centrocampisti: Ugarte (PSG), Bentancur (Tottenham), Valverde (Real Madrid), De Arrascaeta (Flamengo), De La Cruz (Flamengo), Martínez (Midtjylland)

A centrocampo, il sicario incaricato di spezzare sogni e ambizioni dei calciatori qualitativamente più virtuosi è Manuel Ugarte. Debutto a quindici anni e duecentoventitré giorni, nel Fénix. Com’è per i predestinati. È lui a detenere il record di più giovane debuttante del calcio uruguaiano nel ventunesimo. A diciotto è il capitano. Poi, lo sappiamo tutti. Il passaggio dal Famalicão, lo Sporting Lisbona e il PSG. Per 60 milioncini. Mica male.

Con tutta probabilità di fianco a Ugarte, ci sarà l’ex juventino Rodrigo Bentancur, detto Lolo. Bielsa lo stima da tempo immemore. Nel 2018, Marcelo parlava così di lui: «È un calciatore da sogno, per qualsiasi allenatore, perché in una singola partita può essere un volante così come un dieci aggiuntivo in fase offensiva». Bentancur è cresciuto diviso tra Cardona e Nueva Helvecia. Rispettivamente tra mamma e papà, che si erano separati. La madre, Mary, è poi venuta a mancare quando aveva quattro anni. Così, Rodrigo è andato a vivere con il padre Roberto – il figlio del presidente dell’Artesano, ovvero la squadra locale – e la compagna Cecilia. La sua prima esperienza nel Baby Fútbol prima di sposare la tradizione di famiglia è stata, però, nel Club Lucerna

La sua scoperta invece è merito di Horacio Anselmi, storico collaboratore delle giovanili del Boca Juniors. A dodici anni Rodrigo si è trasferito a Buenos Aires e nel giro di qualche mese predicava già calcio giocando coi ragazzi di quattro anni più grandi. È rimasto legatissimo all’Artesano, tant’è vero che ogni ritorno a casa, al di là del Río de la Plata, diventava un’ottima scusa per fare visita ai suoi ex compagni di squadra.

Una volta, l’Artesano doveva disputate la semifinale di un torneo Sub–14 contro i rivali locali e Rodrigo si presentò al campetto chiedendo di poter giocare. «Sei pazzo, per caso? Quelli del Boca ci uccidono se vengono a saperlo», gli risposero l’allenatore e i dirigenti. «Non ho ancora il nullaosta, sono un vostro giocatore». Alla fine non giocò, ma solo perché non ci fu il tempo materiale di inserirlo nella distinta.

Federico Valverde compare nella lista dei centrocampisti, ma potrebbe essere impiegato come ala destra in questa Copa América. Serve una garanzia da quelle parti e garanzia è il suo secondo nome. In questo senso, Bielsa darebbe continuità alla celebre intuizione ancelottiana culminata nell’assist decisivo dell’uruguaiano in finale di Champions League contro il Liverpool (nel 2022) per il gol di Vinícius. Da bambino non gli piaceva correre. Rileggerlo oggi fa ridere. Era El Pajarito, l’uccellino, perché secondo il suo primo allenatore giocava a calcio svolazzando per il campo. È diventato El Halcón, il falco. Simbolismi evolutivi. Sarà il capitano di questo gruppo e questa investitura, guardando al calcio totalizzante che incarna, non ci sorprende più di tanto. 

Il tempo scorre, ma De Arrascaeta resta. Avete presente il meme divenuto presto trend del Roman Empire? Per farvela breve: con l’espressione Roman Empire, nel gergo dei social, si intende qualsiasi cosa che affascina o incuriosisce un individuo a tal punto da spingerlo a pensarci con una frequenza inspiegabile. Il concetto del Roman Empire è nato dall’influencer svedese Saskia Cort, che nell’agosto del 2022 ha postato sul suo profilo Instagram un box domande chiedendo ai propri follower di raccontarle a che cosa pensassero per la maggior parte del loro tempo gli uomini etero. La cosa è sfuggita ben presto di mano. Una ragazza rispose che la fissa del suo ragazzo era proprio l’Impero Romano. E a quanto pare, non era l’unico. Nel settembre 2023, TikTok è stato letteralmente invaso da video nei quali le donne chiedevano ai loro fidanzati quanto spesso pensassero all’Impero Romano.

Ecco. Il mio Roman Empire, e se ho il coraggio di scriverlo è perché sono certo di non essere l’unico, è il fatto di non aver mai visto Giorgian De Arrascaeta nel calcio europeo. Defensor Sporting, Cruzeiro e Flamengo. Evidentemente, stava e sta bene lì dov’è. C’è anche lui, ancora lui, nell’immediato presente della Celeste.

Ci sarà anche il suo fresco compagno di squadra nel Flamengo, Nicolás De la Cruz. È letteralmente cresciuto respirando calcio. Carlos Sánchez, il Pato, s’intende, è il suo fratellastro. Rubén Paz è stato il suo primo, vero maestro di calcio. Al River Plate era il cocco calcistico di Marcelo Gallardo: «Sa fare tutto. E lo fa alla grande. È dinamico, ha grinta e segna. Può disequilibrare durante la fase offensiva e contribuire in fase difensiva. Gioca più partite in una sola. L’unica cosa di cui ha bisogno è di continuare a fare tutto questo con regolarità, essendo giovane può farlo. E quando lo farà, non sarà più qui». Lo vedremo mai in Europa oppure diventerà un Roman Empire NextGen? Dobbiamo dircelo, il rischio c’è.

Emiliano Martínez gioca nel Midtjylland insieme a Darío Osorio (qui la presentazione del Cile) ed è stufo di rispondere ai vari utenti inesperti che gli scrivono su Instagram confondendolo per il Dibu argentino. Lo ha raccontato davvero a margine di varie interviste, non me lo sto inventando al momento. La sua convocazione ispira vibes abbacinanti da Simone–Barone–Mondiale–2006–charrúa–edition. Prima di esordire con l’Uruguay la stampa nazionale lo aveva definito come «l’ultima follia di Bielsa». Sì, in quel momento Marcelo non aveva ancora convocato il dilettante Walter Domínguez. Avrà influito l’addio improvviso di Vecino alla Selección in questa decisione? Forse, ma ha poca importanza. Emiliano Martínez che non è il Dibu ha diritto di sognare.

Attaccanti: Suárez (Inter Miami), Núñez (Liverpool), Brian Rodríguez (Club América), Pellistri (Manchester United), Ocampo (Cadice), Canobbio (Athletico Paranaense), Maxi Araújo (Toluca), Cristian Olivera (Los Angeles FC)

«Quando abbiamo festeggiato il nostro primo gol insieme, eravamo solo due bambini che sognavano di portare in alto il nome del loro paese. Quei due bambini sono ormai diventati adulti, hanno vissuto insieme cose uniche e irripetibili, difendendo la loro amata Selección. Tra momenti brutti e momenti belli abbiamo sempre ambito a un obiettivo comune. Che l’Uruguay vincesse. Il tuo nome sarà sempre segnato nella storia del nostro calcio e del nostro Paese. Come uruguaiano ti ringrazio per tutto quello che hai fatto per la nostra Nazionale. Ti auguro solo e sempre il meglio». Un messaggio firmato Luis Suárez. Il destinatario è Edinson Cavani.

Salto, poco meno di quindici chilometri dal confine argentino. La culla dello scrittore Horacio Quiroga e delle opere urbane di Eladio Dieste, che ha progettato così tante cose per la comunità da vedersi intitolata la Porta della Sapienza all’ingresso della cittadina. Uno andava in direzione del Jardines Del Hipódromo. L’altro al Gran Parque Central. Danubio e Nacional. Fossero nati argentini, la frase di Julio Cortázar «camminavamo senza cercarcieppure sapendo che camminavamo per incontrarci» sarebbe stata abusata più di quanto non sia già stato fatto.

Novantuno partite insieme con l’Uruguay. Quattro Mondiali e altrettante edizioni della Copa América vissute fianco a fianco, giocate spalla a spalla. Luis Suárez è miglior marcatore della storia dell’Uruguay (68) e il secondo calciatore per presenze (138) dietro a Diego Godín. Edinson Cavani è rispettivamente secondo e terzo nelle due graduatorie, con 58 centri e 136 partite. Luis avrà la sua Last Dance. Edinson non l’ha voluta, ha preferito fare un passo a lato. Si chiude un’epoca, qualcosa di davvero irripetibile e unico. Resta il ricordo di due ragazzini di dodici, massimo tredici anni che si incontrano a una fermata del bus, probabilmente messa su in quattro e quattr’otto dal solito Eladio Dieste. Quelli che sognavano di rendere grande l’Uruguay, senza sapere che l’avrebbero fatto insieme.

Un paio di giorni fa, Suárez ha pubblicato sul suo profilo Instagram anche un video in cui lo si vede seduto a chiacchierare lungamente con Darwin Núñez, che di Cavani dovrebbe essere l’erede naturale. Un passaggio di consegne. Darwin è uno consapevole di dove può arrivare, ma non dimentica da dove viene: «Mio padre lavorava nell’edilizia e quando non avevo più le scarpe per giocare lavorava anche otto o nove ore al giorno per comprarle e per portare del cibo a tavola. Mia madre è sempre stata una casalinga e usciva per le strade a raccogliere bottiglie da vendere. Sì, tanti giorni mi è capitato di andare a letto con la pancia vuota. Ma quella che andava a letto sempre così era mia madre, perché una mamma fa tutto per i suoi figli e molte volte andava a letto senza mangiare per darci da mangiare».

Non appena si è trasferito con la famiglia a Montevideo per cominciare il suo percorso nel Peñarol la sua casa di Artigas è crollata. In una partita di Tercera División contro il Sud América, però, gli salta un crociato. Pensa di smettere, e di fare ritorno a casa, ma suo fratello Junior si mette di traverso: «Mio fratello è stato la luce che mi ha illuminato, il sostegno per poter continuare». Lo stesso Junior che ha dovuto salutare il Peñarol quando era ormai approdato alle porte della Prima Squadra, per risolvere alcuni problemi familiari. Anche quella volta, Darwin sarebbe voluto tornare indietro con lui, ma fu sempre Junior a impedirglielo. Vedeva un futuro per lui. E aveva ragione.

Nel settembre del 2021, nella sfida di Champions League (Gruppo E) tra Benfica e Barcellona, è diventato il più giovane marcatore uruguaiano nella storia della competizione (con 22 anni, 3 mesi e 5 giorni). Nell’estate seguente il suo trasferimento al Liverpool per cento milioni (75 di parte fissa più altri 25 di bonus) lo ha reso il calciatore più costoso nella storia del suo paese, superando proprio l’amico e mentore Luis Suárez, che nel 2015 fu pagato dal Barça poco più di ottanta milioni di euro (81,72 milioni).

Brian Rodríguez deve diventare consapevole di dover rappresentare una garanzia. Ha cominciato a giocare a calcio anche attraverso i maestri di scuola, che consigliarono ai genitori di fargli sfruttare lo sport per riuscire a incanalare la sua iperattività. Tabaré Do Prado, uno dei suoi primi tecnici nella scuola calcio Pelota de Trapo, racconta sempre di una partita di campionato nella quale il collega avversario lo pregò di sostituirlo alla fine del primo per non demoralizzare ulteriormente i suoi ragazzi. All’epoca in cui si è trasferito al Los Angeles FC è diventato il terzo trasferimento più costoso nella storia della MLS dopo quelli di Ezequiel Barco e Gonzalo Martínez all’Atlanta United. Gli contenderanno il posto Brian Ocampo e Maxi Araújo.

Ocampo è arrivato al Cadice due anni fa e nella stagione degli esordi nel calcio europeo ha fatto intravedere degli sprazzi di talento sufficientemente interessanti. Il percorso di crescita sembrava poter essere lineare, ma nel febbraio del 2023 si è rotto il legamento crociato ed è rimasto ai box fino a settembre. Non ha giocato un granché, solo 13 partite (e 1 gol) nel 2023–2024. La sensazione è che non si sia totalmente ripreso. Araújo ha l’Europa nel mirino e ha rivelato di aver avuto dei contatti con il Napoli, dopo essere diventato un idolo della tifoseria del Toluca. Sarà lui, con tutta probabilità, a giocarsi il posto da titolare.

Ai tempi del Peñarol, Facundo Pellistri era il pupillo di un certo Diego Forlán, che da allenatore lo ha preso subito sotto la sua ala. Guidandolo e formandolo. Quando era un bambino durante le ore di educazione fisica a scuola, nessuno voleva correre contro di lui sulle pista di atletica. La gambeta e le fughe elettriche in fascia, d’altronde, sono sempre state la specialità di casa. Non ha ancora avuto delle vere occasioni per rivelarsi al mondo con il Manchester United, e ha girovagato un po’ in prestito tra Alavés e Granada senza chissà quale risultato, ma ha il tempo dalla sua e forse – come testimonia la convocazione di Bielsa – merita di essere aspettato. Dovrebbe essere lui in quella zona di campo la prima alternativa a Valverde, ma dovrà guardarsi dalla concorrenza di Agustín Canobbio e di Cristian Olivera.

Canobbio è cresciuto nel Peñarol proprio come Pellistri (ha un anno in più), dopo essersi formato nel Fénix come Ugarte. Talento interessante, Agustín, che nel 2022 è passato all’Athletico Paranaense raggiungendo la finale di Copa Libertadores al primo tentativo (persa 1–0 contro il Flamengo). La qualità è una componente intrinseca del suo campionario. Forse, al repertorio gli mancano un po’ di gol che lo renderebbero facilmente un profilo appetibile per il calcio europeo. Olivera lo scorso maggio aveva manifestato tutta la sua delusione nei confronti del suo club, il Los Angeles FC, per non avergli permesso di prendere parte al Preolimpico. Alla fine, è arrivata la convocazione di Bielsa per la Copa América. Un bel risarcimento, con tanto di interessi.

La lista completa dei convocati

Portieri: Rochet (Internacional), Mele (Junior de Barranquilla), Israel (Sporting Lisbona)

Difensori: Araújo (Barcellona), Giménez (Atlético Madrid), Marichal (Dinamo Mosca), Viña (Flamengo), Olaza (Krasnodar), Mathías Olivera (Napoli), Sebastián Cáceres (Club América), Varela (Flamengo), Nández (Cagliari)

Centrocampisti: Ugarte (PSG), Bentancur (Tottenham), Valverde (Real Madrid), De La Cruz (Flamengo), De Arrascaeta (Flamengo), Martínez (Midtjylland)

Attaccanti: Suárez (Inter Miami), Núñez (Liverpool), Pellistri (Manchester United), Brian Rodríguez (Club América), Ocampo (Cadice), Canobbio (Athletico Paranaense), Maxi Araújo (Toluca), Cristian Olivera (Los Angeles FC)

Daniele Pagani

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