La centrifuga del terrore è entrata in funzione in una serata alienante, già complessa di suo. Al Maracanã l’Argentina ha appena battuto a domicilio un Brasile sempre più in crisi, irriconoscibile. L’ha fatto di misura, grazie a una zuccata provvidenziale di Otamendi. La partita ha rischiato di non essere giocata, poi è stata semplicemente posticipata. E il clima torrido c’entra ben poco. Sugli spalti, poco prima del calcio d’inizio, si sono verificati degli scontri durissimi. Dapprima tra le due tifoserie rivali e poi con le forze dell’ordine coinvolte. A farne le spese, sono soprattutto gli argentini. Legnate da orbi, volti insanguinati, persone che si accalcano lanciandosi all’indietro per evitare colpi violentissimi, il Dibu Emiliano Martínez che tenta di sottrarre il manganello dalle mani di uno militari.
Dopo la partita, Scaloni raggiunge la sala delle conferenze stampa. Ha il volto tirato. Si lascia andare a un respiro profondo, prima di prendere la parola: «Ho molte cose su cui riflettere in questo momento. Il pallone si è fermato, devo fare le mie considerazioni. Questi giocatori mi hanno dato tanto, è un gruppo che pretende permanentemente. Il mio non è un addio, ma l’asticella ora è molto alta. Questa squadra ha bisogno di un allenatore che abbia tutta l’energia possibile che stia bene. Lo dirò al presidente e lo dirò ai giocatori». Ed è lì, che il sangue di ogni argentino ha cominciato a gelare. Terrore e sindrome dell’abbandono che restituiscono subito la parcella. Non salata. Salatissima.
Nel febbraio precedente, giusto una manciata di mesi dopo il trionfo qatariota, l’AFA (Asociación del Fútbol Argentino) aveva annunciato con gioia il rinnovo dell’ex laziale e atalantino fino al 2026. Una conferma anche il vista dei Mondiali in compartecipazione tra Canada, Messico e Stati Uniti. Dalla continuità di un progetto, però, si è passati in fretta alla paura di dover già trovare un sostituto entro le amichevoli del marzo seguente.
Scaloni è arrivato nel 2018 per sostituire Jorge Sampaoli dopo il disastro del Mondiale russo. Assunto ad interim. E il fatto che fosse stato assunto ad interim va sottolineato appositamente per amplificare i risultati che è riuscito ad ottenere. Tre trofei. La Copa América, la Finalissima contro l’Italia e il Mondiale. A corollario, la seconda striscia d’imbattibilità più lunga nella storia delle Nazionali: trentasei partite, una in meno dell’Italia di Mancini. Cos’altro dovrebbe vincere? Certo. Ma proprio perché ha vinto tutto, perché lasciarlo andare così?
Alla fine, è stato proprio il DT a tornare sui suoi passi, al principiare del 2024: «Si è parlato tanto dell’argomento, ma ho sempre detto la verità. Mi sono preso un momento per pensare e capire cosa fare. Non era un addio o qualcosa del genere. Stavo pensando a come continuerà la mia storia con la Nazionale. I giocatori stanno benissimo, la squadra sta benissimo, dunque serve un allenatore nel pieno delle le energie. L’ho detto e lo ripeto: hanno bisogno di un allenatore al loro livello. È tempo di pensare e penso sempre la stessa cosa. Il rapporto con il presidente Tapia è eccellente, è una questione esclusivamente personale».
Con lui alla guida, l’Argentina sogna un back to back da urlo. Forse sarà la fine del ciclo. O forse il ciclo durerà davvero fino alla prossima Coppa del Mondo. Scaloni sa di aver scritto pagine ormai leggendarie della storia calcistica del suo paese, ma è consapevole di avere i mezzi per poterne scrivere un altro capitolo altrettanto indelebile.
Sul conto di Emiliano Martínez non esistono zone di pensiero grigie, il baluardo dell’indifferenza. Il Dibu per com’è fatto smuove sentimenti. E tutti rigorosamente contrastanti. Se ce l’hai dalla tua parte, lo ami alla follia. Se ti ritrovi dall’altra lato della barricata lo odi fin dentro le viscere. È l’eroe che si ammazzerebbe per la causa in cui crede e che si getterebbe su una granata per i compagni di squadra, ma al contempo un bulletto che si gonfia di tracotanza, spesso gratuita, grosso (centonovantacinque centimetri per novanta chili) e provocatore come nessun altro di questi tempi.
Nel 2009, quando ha sostenuto il provino che in seguito gli ha permesso di trasferirsi all’Arsenal, ci ha messo dieci giorni per farsi passare l’angoscia di allontanarsi da casa. È stato Miguel Ángel Santoro, suo mentore e leggenda dell’Independiente, a convincerlo: «Aveva tanti dubbi, perché se ne stava andando in un altro paese, ma sapeva di avere una grande opportunità. Se ti mancherà la famiglia, porta tua madre. Quando tua mamma si stancherà, fai venire tuo papà. Quando si stancherà anche lui, porta qui tuo fratello, e così ti adatterai». Dopo quei dieci giorni, ha deciso di restare.
Tredici anni dopo, senza mai aver avuto una possibilità concreta con l’Arsenal, e rimbalzando in prestito qui e lì, è diventato uno dei simboli della Scaloneta. In Argentina c’è chi lo pone solo dietro a Messi per importanza e chi invece lo mette sul suo stesso piano. In Qatar, oltre a parare rigori, è stato praticamente un oracolo. Una delle profezie l’ha raccontata il noto streamer Gerónimo Benavides nel programma LPF Show: «Il Dibu stava male dopo la partita, ma si è ricomposto subito e prima di salire sul bus ha detto: addio, ci vediamo in finale. Mi sono chiesto come facesse ad esserne così convinto, ma ha avuto ragione».
Ad un certo punto, alla vigilia della semifinale contro la Croazia, aveva preallertato Gerónimo Rulli di tenersi pronto. Era sicuro che non avrebbe giocato a causa di un problema muscolare, ma alla fine ce l’ha fatta. Nella finale di Lusail, altro show e altre premonizioni.
La prima, sul miracolo con cui ha disinnescato Kolo Muani: «Me lo aspettavo che Otamendi mancasse quel pallone. In questo tipo di situazioni di gioco i portieri tedeschi aprono le braccia. Invece, quelli inglesi, cercano di allungare la gamba. Noi sudamericani giochiamo d’intuito. Mi sono detto: provo a uscire, non rimango bloccato. Nell’uscita ho visto dov’era il dischetto del rigore rispetto a me, quindi sapevo dove lui avrebbe calciato».
La seconda, su quali giocatori prendere di mira ai rigori: «La danza è qualcosa che viene fuori dal momento. Ovviamente sono consapevole di essere forte nell’uno contro uno ai rigori e so altrettanto bene che la gente lì mi teme. Quando ho parato il primo rigore della finale, su Coman, ho capito che Tchouaméni si sarebbe presentato presentato sul dischetto carico di pressione. Così, mi sono messo a giocare psicologicamente con lui lanciandogli via la palla e parlandogli per distrarlo. L’ha tirata fuori».
Franco Armani ha trentasette anni e conta quasi trecento presenze ufficiali con il River Plate. Franco Armani è quello dello spogliatoio che riscuote le multe. E uno così, della vecchia guardia, vecchia scuola, torna sempre comodo. Franco è diventato portiere perché quando aveva quattro anni suo fratello maggiore, che giocava da centravanti, lo obbligava ad indossare i guantoni e a difendere il portone di ferro del garage. Quando giocava in Colombia, nell’Atlético Nacional, René Higuita era pazzo di lui. E avrebbe fatto carte false per insegnargli la mossa dello scorpione: «Una produzione televisiva del paese voleva realizzare un prodotto in cui avrei dovuto insegnare a Franco la mia mossa dello scorpione. Ho provato a convincerlo, ma è stato impossibile».
Per quanto riguarda la terza scelta, potremmo discutere per ore della mancata convocazione di Juan Musso a fronte di una stagione di alto livello, ma Scaloni ha optato per Gerónimo Rulli. E questo è quanto. Dopo quel celebre approdo mancato al Napoli ai tempi della Real Sociedad, l’estremo difensore originario di La Plata ha raggiunto l’apice della carriera nel 2021 nella finale di Europa League tra il Villarreal e il Manchester United. Era stato lui a segnare l’undicesimo di una lotteria infinita di rigori e a neutralizzare quello successivo di David De Gea regalando la coppa al Submarino Amarillo. Gerónimo è un tipo decisamente scaramantico. Nell’aprile del 2023, dopo la vittoria dell’Ajax in semifinale di KNVB beker sul Feyenoord, l’argentino aveva mostrato in un video sui social i suoi rituali prepartita. Con l’incenso ripulisce la propria divisa da gioco, guanti e scarpette comprese, per allontanare gli spiriti maligni.
Difensori: Otamendi (Benfica), Romero (Tottenham), Lisandro Martínez (Manchester United), Martínez Quarta (Fiorentina), Balerdi (Marsiglia), Pezzella (Real Betis), Molina (Atlético Madrid), Montiel (Nottingham Forest), Tagliafico (Lione), Barco (Brighton), Acuña (Siviglia)
Una volta, in una conferenza stampa, Pep Guardiola ha definito così Nicolás Otamendi: «Tutti parlano solo di Sterling, De Bruyne e David Silva, ma è lui il Superman del mio Manchester City». Ha praticato il taekwondo e la boxe fino a quando aveva quattordici anni. Poi è arrivato al Vélez e si è lasciato rapire dal fascino dell’incontro quotidiano con alcuni simboli del club, come José Luis Chilavert e Omar Asad, di cui conserva ancora le foto insieme. Gli mancano solamente tre partite per raggiungere Roberto Ayala, che è proprio uno degli assistenti di campo di Scaloni, a quota centoquindici presenze con l’Argentina: giocare tutte le gare della fase a gironi vorrebbe dire top–5.
A Cristian Romero hanno detto una cosa, quando ha lasciato il Belgrano per trasferirsi al Genoa, ma non era niente di gentile o edificante: «Mi dissero che nel calcio italiano sarei durato poco e che nel giro di tre mesi avrei fatto ritorno a Córdoba a lavorare, ma non come calciatore». Evidentemente, le profezie, restano roba esclusiva del Dibu e non di quei dirigenti. Debutto di gerarchia nel Genoa di Ivan Jurić contro la Juventus. Un futuro in bianconero mai davvero vissuto e scritto. La consacrazione con l’Atalanta. Il trasferimento al Tottenham, che lo ha pagato cinquantadue milioni di euro rendendolo il quarto acquisto più costoso della sua storia. Se quelli del Belgrano volessero darci i numeri per le quinielas… giocheremmo tutti gli altri numeri.
Lisandro Martínez ha due doti importanti. Si adatta in fretta e diventa altrettanto velocemente un idolo delle tifoserie. Ha debuttato nel Newell’s Old Boys, come il suo idolo Gabriel Heinze, ma è nel Defensa y Justicia che ha raggiunto il primo exploit. Se lo è accaparrato l’Ajax. E lui, nell’arco di tre stagioni, ha scollinato i cento gettoni, diventando il leader difensivo della squadra dopo l’addio di De Ligt, direzione Juve. Da Amsterdam è volato in Premier League, in direzione Manchester United. Realtà ben lontana rispetto ai fasti dei fuoriclasse assoluti con cui ha giocato lo stesso Gabriel Heinze prima di andarsene al Real Madrid. Centosettantacinque centimetri di pura angoscia argentina per i piazzati centravanti inglesi. Così si può riassumere Lisandro.
Non molla mai, Martínez. I tifosi del Red Devils lo hanno ribattezzato The Butcher e a Old Trafford intonano il coro «Argentinaaa! Argentinaaaa!», ogni volta che vince un tackle. Dunque, spesso. Sicuramente, va d’accordo con Rulli, dato che in Qatar ha trasmesso a tutta la squadra la fissazione dell’incenso per purificare l’ambiente e scacciare le energie negative. Nell’amichevole contro il Guatemala si è fatto autogol. Dopo la partita – vinta comunque quattro a uno – ne avrà sicuramente fatto uso.
Germán Pezzella vanta quaranta presenze ufficiali con la Selección. Una volta, nel 2014, ha permesso al River Plate di pareggiare un Superclásico al novantesimo. Alla Fiorentina è stato capitano e nel Betis è un simbolo. Nel 2017, però, quando è stato convocato per la prima volta in Nazionale sotto la gestione Sampaoli, diverse di queste credenziali non sono state sufficienti. All’entrata del centro sportivo di Ezeiza, infatti, Germán venne fermato da un membro della sicurezza che non lo aveva riconosciuto e fu costretto a mostrargli il documento d’identità.
Lucas Martínez Quarta ha dei parastinchi portafortuna dai tempi del River Plate e non li ha mollati neanche dopo quattro stagioni con la maglia della Fiorentina. Sopra ci sono raffigurati la moglie e i tre figli. Ha deciso che non li butterà fin quando non si spaccheranno del tutto.
Sull’out di destra i nomi sono sempre quei due, Nahuel Molina e Gonzalo Montiel. Molina è venuto a sapere della sua prima convocazione in Nazionale dalle telefonate di De Paul e Joaquín Correa. Da quel momento, è diventato un punto fermo della Selección. Anche lui è parte del club albiceleste dell’incenso e dopo il Mondiale qatariota ha raccontato un episodio decisamente curioso, ma al limite del macabro: «Nel ritiro, andavamo tutti in giro con un bastoncino d’incenso. A causa dell’energia negativa, capite? Dopo la sconfitta con l’Arabia Saudita è stato necessario. A un certo punto, tre degli accendini che usavamo sono esplosi nello stesso identico posto, dal nulla». Di questo passo arriveremo alla fine del pezzo credendoci quasi quanto loro. Gonzalo Montiel fa Ariel di secondo nome, in omaggio ad Ariel Ortega, e cos’altro dirvi? Ha calciato lui il rigore decisivo, nella finale di quel Mondiale. Fabio Grosso™.
A sinistra il titolare indiscusso dovrebbe essere ancora Nicolás Tagliafico. Quando giocava ancora nel settore giovanile del Banfield ha scoperto della sua prima convocazione in Nazionale con la Sub–15 da una stanza di ospedale. In una partita di categoria contro il Rosario Central, da osservato speciale del vice allenatore Jorge Theiler, andò in contrasto aereo con due attaccanti avversari e incassò un colpo alla testa, perdendo anche la memoria per qualche ora. In quelle ventiquattro ore di ricovero e di monitoraggio, con la madre al suo fianco, scoprì della chiamata della Selección.
Da bambino si sparava tra i 500 e i 600 chilometri, più volte a settimana, per andare agli allenamenti a Buenos Aires. Perché il Boca non riusciva a liberargli un posto nella pensione del club. Non sono cose da poco, perché il River Plate per le stesse identiche ragioni si è fatto sfuggire un certo Sergio Agüero. Valentín ha anche una fissa per il numero sette. Avrebbe voluto vincere la Copa Libertadores contro la Fluminense anche in virtù di questo. Non ce l’ha fatta, e ne ha vissuto il rammarico, ma ora è arrivato in Europa per prendersi tutto. Maglia dell’albiceleste inclusa.
Marcos Acuña è sempre stato uno dei giocatori maggiormente coinvolti nelle critiche ricevute dall’Argentina prima che arrivassero la Copa América e il Mondiale, ma è sempre lì. Al suo posto. È nato a Zapala, nel cuore di Neuquén, Patagonia, e dopo la separazione dei suoi genitori è cresciuto con la madre e sua nonna Leonor. Quando neanche maggiorenne era già stato scartato – in rigorosissimo ordine – da Argentinos Juniors, Boca Juniors, Quilmes, River Plate, San Lorenzo e Tigre aveva pensato di abbandonare. Poi sono arrivati nella sua vita il Ferro Carril Oeste e il Racing Avellaneda. Lo chiamano Huevo, ma non per il suo carattere combattivo. Nei primi anni con l’Olimpo de Zapala, infatti, Marcos era piuttosto impacciato e in campo si causava svariati bernoccoli su tutta la testa. Da qui: Huevo.
Alexis Mac Allister è un ragazzo molto introverso e ha i capelli di un rossiccio molto meno brillante di Barco. Ai tempi delle sue prime convocazioni con la Selección non riusciva neanche a prendere il coraggio di salutare Messi. Era troppo nervoso alla sola idea di essere davvero lì insieme a lui, figurarsi a parlargli e instaurare una vera conversazione. Un giorno, all’orecchio di Leo, è giunta una voce: qualcuno negli spogliatoi stava facendo qualche battuta di troppo all’introversissimo Alexis in merito al colore dei capelli. Così, la Pulga, prima di una seduta d’allenamento, ha parlato alla squadra e ha ordinato che la storia finisse lì. Chiunque fosse il colpevole. Nessuno si è più permesso di fare battute.
Alexis è il fiore all’occhiello di una famiglia dalla grande tradizione calcistica. Carlos, suo padre, era un terzino sinistro disciplinato e laborioso e nel 2015 è stato il Segretario per lo sport, l’educazione fisica e la ricreazione del governo di Mauricio Macri. Suo zio Patricio, invece, era un attaccante. Ha giocato in Argentina, ma anche in Giappone e in Messico. I suoi due fratelli maggiori, Francis (1995) e Kevin (1997), giocano rispettivamente nel Rosario Central e nell’Union Saint–Gilloise. E di quest’ultimo, il sottoscritto serba un bellissimo ricordo a margine di una sfida valida per i play–off di UEFA Europa League.
Nel novembre del 2017 Alexis, Kevin e Francis hanno vissuto un momento destinato a rimanere impresso nei libri di storia del calcio argentino. I tre fratelli hanno giocato insieme nella stessa partita di Primera División tra il loro Argentinos Juniors e il San Lorenzo. Alexis e Francis da titolari, mentre Kevin è entrato in campo dopo un quarto d’ora dall’inizio del secondo tempo. I precedenti sono pochissimi. Era successo un secolo e un anno prima. Sempre all’Argentinos, con i fratelli Caso. Rafael, Alfonso e Vicente divisero il campo per venticinque partite del torneo di División Intermedia, nell’éra amatoriale del fútbol gaucho, tra il 1914 e 1916.
Altre menzioni onorevoli a tema arrivano dal Club Sportivo Desamparados, storica entità calcistica originaria di San Juan. Il primo trittico di sangue era quello formato da José, Pablo e Nahún. La dinastia dei Nahín. Nel 1928 hanno conquistato insieme il titolo. Poi ecco Pablo, Orlando e Julio, i Roldán, tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60. Infine, Ismael, Vicente e Ángel, i Vega, che hanno fatto parte dell’epoca dorata del club nel decennio successivo.
Su Rodrigo De Paul e del suo rapporto strettissimo con Lionel Messi sono stati fatti parecchi meme, che non potevano non diventare virali. Una volta era ospite in un programma televisivo argentino ed il presentatore gli ha teso un tranello: si parlava della sua relazione amorosa con la cantante Martina Stoessel, in arte Tini. «Una relazione così bella e che evidentemente ti rende molto felice…», comincia il suo interlocutore. Rodrigo sorride e annuisce, sentendo parlare della sua amata. «Come ha preso questa storia Messi?». E a quel punto Rodrigo non può trattenere una risata. Tutto questo, per dire che se in campo hai dei problemi con lui, allora ce li hai anche con lui.
Nel 2018 De Paul era ormai giunto a un bivio. Non si riusciva a comprendere se sarebbe mai stato in grado di alzare definitivamente l’asticella, portando il fattore della continuità di rendimento sullo stesso livello della sua classe. Oggi è con tutta probabilità uno dei centrocampisti più completi al mondo nella doppia fase. Guarda le spalle a Messi. E a tutta l’Argentina. Fedele e devoto, come gli ha insegnato suo nonno, che da quando aveva otto anni lo accompagnava ad ogni allenamento. Quando è venuto a mancare lui, ha pensato di abbandonare il calcio, ma la chiamata del Racing Avellaneda l’ha convinto a non gettare la spugna.
Completa la mediana Enzo Fernández, l’acquisto più costoso della storia della Premier League nel momento in cui è passato dal Benfica al Chelsea per 120 milioni. A portarlo nel settore giovanile del River Plate è stato Pablo Esquivel: «Un giorno ha giocato contro la mia squadra di categoria e mi ha fatto impazzire, così ho detto subito a Gabriel Rodríguez (il coordinatore dei giovanili del River, altra vecchia conoscenza del sottoscritto) che c’era questo ragazzo fortissimo. Da prendere. Mi ha dato il mandato per prenderlo. Abbiamo parlato a lungo con i suoi genitori, Marta e Raúl, ma ci hanno detto che era ancora troppo piccolo. Per fortuna, un anno dopo, hanno deciso di portarlo qui da noi e siamo riusciti a ingaggiarlo».
Enzo è un ossessionato, del River Plate. Il suo nome è un omaggio a Francescoli. Il suo soprannome, Gordo, deriva dal fatto che da piccolo era un po’ paffutello. La vittoria in Copa Libertadores nel Superclásico contro il Boca Juniors al Santiago Bernabéu l’ha vissuta da casa. Dopo il primo tempo, chiuso in svantaggio di un gol, ha mandato via la fidanzata per scaramanzia. Quando è stato convocato per il Mondiale in Qatar, ha eliminato per sbaglio il messaggio: «Avevo l’impostazione di WhatsApp per cui il messaggio viene cancellato dopo 24 ore. Non sapete come mi sentivo. Non sapevo di avere quell’impostazione e non avevo nemmeno uno screenshot. Ho preferito aspettare che uscisse la lista sui social prima di chiederlo e passare per scemo».
Exequiel Palacios non poteva mancare. Non è mai stato un titolare in senso assoluto nella Scaloneta, ma ne è in buona sostanza il dodicesimo uomo. Lo intervistai poco prima di iniziare a sentire l’eco del suo nome anche qua in Italia. Era stato ad un passo dal Real Madrid, prima di fratturarsi il perone nel River Plate. Il suo profilo rientrava perfettamente in quell’idea di linea verde che ha portato sulla via del Bernabéu numerosi talenti che tutti ormai conosciamo. Ødegaard e Kubo, Vinícius e Rodrygo, Endrick e Güler, Camavinga e Tchouaméni, Valverde e forse nelle prossime settimane anche il 2007 Franco Mastantuono. Al Bayer Leverkusen, sotto la guida di Xabi Alonso, ha disputato una stagione indimenticabile. Di altissimo livello. In queste competizioni a corto raggio, uno così in forma può essere una risorsa determinante.
Giovani Lo Celso ha vissuto una stagione complicata, da esubero, in buona sostanza, in quel Tottenham che ormai non sembra più credere in lui. In Qatar non fu inserito nella lista finale dei convocati di Scaloni, a causa di un grave infortunio patito all’ultimo minuto. Giovani Ha voluto comunque seguire i suoi compagni a Doha, insieme alla fidanzata Magui Alcacer. Che proprio in quel periodo si stava preparando a dare alla luce la loro primogenita, Emilia. Il parto è arrivato in un momento decisamente particolare: «Stavamo guardando la sfida contro il Messico. Quando Leo ha segnato abbiamo iniziato a gridare e non so… quando ci siamo girati, ci siamo accorti che si erano rotte le acque. Penso che le urla, l’euforia abbiano contribuito. In quel momento, l’esultanza degli argentini ha smosso cielo e terra».
Leandro Paredes non poteva mancare. Non voleva mancare, categoricamente. Sarà il suo ultimo ballo, prima di lasciare il posto alle nuove leve come Alan Varela e Equi Fernández, per dirne due. Due che proprio come lui sono cresciuti nel Boca Juniors. Alla vigilia della finale del Mondiale qatariota contro la Francia, ha vissuto un momento intimo con Lo Celso e De Paul: «Facevamo quasi sempre la stessa cosa. Ci riunivamo per giocare a carte e poi andavamo a letto verso l’una o le due del mattino. Quella notte io, Giovani e Rodri abbiamo deciso di andare nello spogliatoio per vedere se c’era qualcuno dei nostri compagni di squadra, ma era vuoto. Abbiamo messo un po’ di musica e acceso una candela (sicuri che non era un bastoncino di incenso?). E abbiamo detto: esprimiamo un desiderio. Da quel momento abbiamo capito che per noi era impossibile perdere quella finale».
Guido Rodríguez è un altro di quelli che è sempre lì, saldo al proprio posto in ogni posizione. Peraltro, pochi sanno che lui e Paredes hanno condiviso insieme un’esperienza nel Fútbol Infantil nel Cristo Rey de Caseros. Una generazione, quella classe 1994, che ha vinto il campionato locale per cinque stagioni consecutive.
Io mi sono fatto un’idea, della decisione di Messi di andare all’Inter Miami, ed è la seguente: Leo ha scelto la MLS per conservare il proprio fisico con uno sguardo sulla Selección. Lionel Messi, in Qatar, ha rotto la storia del calcio. Definitivamente. Ha vinto quelle sue ossessioni ben celate dietro uno sguardo timido. Ha scacciato via tutto il brutto, lo sporco. I fantasmi.
Penso fermamente che in cuor suo desideri esserci anche al Mondiale del 2026. «Sto per raggiungere un’età in cui normalmente non dovrei poter giocare un torneo del genere, così importante. Però voglio essere qui. Ora più che mai, perché dopo aver passato anni di sofferenza oggi viviamo un momento speciale e voglio godermelo, mi trovo bene in questo gruppo e mi diverto. Ci piace passare passare il tempo insieme. E non voglio pensare a cosa ne sarà di me tra due o tre anni», ha dichiarato pochi giorni fa.
Chi invece è agli sgoccioli della sua vita in Nazionale è Ángel Fabián Di María, che grazie al gol segnato nella gara amichevole con l’Ecuador è diventato il sesto miglior marcatore di sempre dell’albiceleste agganciando a quota trentuno centri Gonzalo Higuaín. Il quarto posto presieduto da Hernán Crespo dista solo quattro reti. Cinque per il sorpasso effettivo. L’unica cosa certa – deponendo record e statistiche – è che alla fine di questo immenso viaggio saranno lacrime virili per tutti. E una pioggia di ringraziamenti, per il calcio di Ángel. Del resto, l’aveva decisa lui, l’edizione scorsa. Ed è da lui, che è partito il ciclo di questa Argentina.
In questa classifica c’è anche Lautaro Martínez con 24 gol, proprio dietro a Di María. Fresco di seconda stella con l’Inter e capocannoniere della Serie A, esattamente con lo stesso numero di reti segnate con l’albiceleste. Il rigore decisivo contro l’Olanda ai quarti di finale del Mondiale l’aveva calciato lui. E a tal proposito, c’è un divertente aneddoto su quel tiro dagli undici metri che è stato raccontato da Tagliafico: «Penso che Denzel (Dumfries) sia andato a parlare con Lautaro, perché sono amici o compagni di squadra all’Inter. Avrà provato a distrarlo, forse gli ha detto qualcosa in italiano. Cosa può aver detto dopo il portiere a Lautaro? Non possiamo saperlo, ma Lauti parla già male lo spagnolo, non avrà capito un bel niente in inglese». Evidentemente, è meglio che non abbia capito.
Per tutto il Mondiale, invece, pare che Julian Álvarez non abbia pronunciato una parola. A raccontarlo è stato Exequiel Palacios: «Sull’elicottero affittato per i festeggiamenti ero con Scaloni, Mac Allister, Álvarez e Lautaro. Juli non ha parlato per tutta la Coppa del Mondo e poi si è lasciato andare. Scaloni gli ha detto: Adesso parla tu, boludo! Lo abbiamo fatto impazzire. È stato allora che abbiamo saputo com’era la sua voce».
Nico González è un altro nome diventato must nella letteratura della Scaloneta e nell’ultima amichevole con il Guatemala ha giocato da terzino sinistro. Il giorno in cui la Fiorentina doveva volare a Bucarest per giocare la partita di Conference League contro il Ferencvaros, decisiva per conquistare la testa del girone, peraltro, si è messo le mani nei capelli. Pensava di aver scordato del tutto la carta d’imbarco, ma in realtà l’aveva solamente dimenticata sul bus della squadra. Questa volta, la terrà sicuramente sottomano tutto il tempo.
Infine, Alejandro Garnacho e Valentín Carboni, tenuti tra i convocati a scapito di Ángel Correa. I tifosi dello United hanno dedicato ad Alejandro lo stesso coro che cantavano per Cristiano Ronaldo sostituendo i nomi: «Viva Garnacho, running down the wing, hear United sing». Alla benedizione per Valentín, invece, ci ha pensato Messi in persona dopo l’amichevole con il Guatemala: «Ha un futuro fantastico, lo avevo già visto con la Sub–20, ma ora è un giocatore diverso, molto più formato. Ha grandissima qualità». C’è poco da aggiungere, davanti ad attestati di stima del genere.
Portieri: Emiliano Martínez (Aston Villa), Armani (River Plate), Rulli (Ajax)
Difensori: Otamendi (Benfica), Romero (Tottenham), Lisandro Martínez (Manchester United), Martínez Quarta (Fiorentina), Pezzella (Real Betis), Molina (Atlético Madrid), Montiel (Nottingham Forest), Tagliafico (Lione), Acuña (Siviglia)
Centrocampisti: Mac Allister (Liverpool), De Paul (Atlético Madrid), Enzo Fernández (Chelsea), Palacios (Bayer Leverkusen), Lo Celso (Tottenham), Paredes (Roma), Guido Rodríguez (Real Betis)
Attaccanti: Messi (Inter Miami), Di María (Benfica), Lautaro Martínez (Inter), Álvarez (Manchester City), Garnacho (Manchester United), Nico González (Fiorentina), Carboni (Inter)
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