Rivedi qui l’intervista con Marcelo Balboa:
Con l’amichevole giocata nella notte italiana contro il Brasile e pareggiata per 1 a 1 (al verdeoro Rodrygo ha risposto il milanista Pulisic su punizione) gli Stati Uniti di Gregg Berhalter hanno esaurito i test a disposizione prima che si faccia sul serio. Prossimo appuntamento: la Copa America, che gli States vivranno da Paese ospitante, con il match d’esordio previsto il 24 giugno, contro la Bolivia all’At&T Stadium ad Arlington, in Texas. Sarà solo il primo di alcuni grandi appuntamenti che stanno spostando sempre di più il grande calcio nella direzione americana: il prossimo anno sempre lì si terrà il Mondiale per Club, ma soprattutto nel 2026 è previsto il Mondiale per Nazioni.
Il CT in panchina vive il suo secondo mandato: dal 2018 al 2022 ha ottenuto un secondo posto in Concacaf Gold Cup nel 2019 e la vittoria nell’edizione 2021, raggiungendo poi gli ottavi nel Mondiale in Qatar. Dopo il breve intermezzo di Anthony Hudson e Brian Joseph Callaghan, Berhalter ha ripreso in mano la squadra dopo l’ultima Concacaf Gold Cup, trionfando dopo 6 mesi nella Concacaf Nations League, dopo aver battuto il Messico in finale. I presupposti per stupire ci sono tutti, con tanti giocatori sparsi in Europa, Serie A compresa, dove militano ben 5 dei convocati del ct: Pulisic e Musah (Milan), Weah e McKennie (Juve) ed il palermitano Lund.
In esclusiva per SPORTITALIA è intervenuto per presentarci la nazionale a stelle e strisce l’ex difensore Marcelo Balboa, capace di partecipare a ben 3 Mondiali differenti da calciatore (Italia ’90, Usa ’94 e Francia ’98) che gli hanno permesso di diventare il terzo di sempre per presenze in Nazionale maggiore (128 presenze). Oggi Balboa è match analyst per la MLS Season Pass (il canale di Apple TV dove è possibile seguire il campionato statunitense anche in Italia).
Sei originario dall’Argentina, dove il calcio non è solo un gioco. Con queste origini, cosa ha significato giocare 3 Mondiali con la tua Nazionale, per te?
“Parliamo degli anni 80/90. Quando iniziai a giocare sapevo che la Nazionale USA non era una grande squadra nel panorama calcistico, così come non lo era quella olimpica. Il riferimento era Rick Davis, che giocava nella NASL, era la nostra leggenda, per come concepivamo il calcio. Sarei un bugiardo a dire che mai mi sarei aspettato di arrivare a giocare non uno, ma ben 3 Mondiali. Il calcio mi scorreva nel sangue, mio padre era calciatore, ma l’unica possibilità di trasformare la passione in lavoro era arrivare alla Nazionale Under 20, altrimenti giocavamo in tornei amatoriali o università locali: non c’era modo di guadagnarsi da vivere con il calcio. Devo tutto a una persona”.
Chi?
“Derek Armstrong, che arrivò a dirigere l’Under 20 con Stevie Highway, l’ex leggenda del Liverpool. Faccio un passo indietro. Giocavo spesso contro il San Diego Nomads dove lui allenava. Arrivò la mia occasione di mostrarmi all’Under 20 ad un torneo, che vincemmo con la mia squadra, dove però l’allora CT dell’Under 20 neanche si presentò, per poi convocare tutti i soliti che conosceva. Poi però fece male in Russia e venne licenziato. Arrivò Armstrong, che già mi aveva visto giocare contro di lui e mi diede la chance che aspettavo. Senza di essa, non avrei partecipato al Mondiale Under 20 nell’88 e poi a 3 Mondiali”.
Incluso il primo in Italia.
“Sì, sono stato così fortunato da venire in Italia, poi ci fu quello negli Stati Uniti e poi quello in Francia. Non mi posso lamentare”.
Il gruppo non è facile (Uruguay, Panama e Bolivia), ma concorderai con me nel dire che gli USA non devono avere paura?
“Beh, noi giocammo la Copa America ’95 in Uruguay e sì, avevamo paura (ride, n.d.r.). Erano altri tempi, differenti, ma nonostante fossimo nervosi raggiungemmo la semifinale poi persa contro il Brasile. Con Uruguay, Panama e Bolivia non sarà facile oggi, ma questa è una squadra che, ad essere onesti, è arrivata ad un punto di non dover più avere paura di nessuno. 4-5 giocatori sono in Italia, stanno facendo bene in squadre come Milan e Juventus, altri in giro per l’Europa stanno vivendo buoni momenti. Non lo dico per sfrontatezza, ma abbiamo guadagnato rispetto”.
Dove può arrivare?
“Questa squadra ha giovani che hanno provato di poter giocare in ogni club del mondo. Certo, in Nazionale sarà diverso: dovranno arrivare come un gruppo, giocando a calcio nel modo giusto al momento giusto. Se lo faranno, credo che potranno non solo superare il gruppo, ma anche raggiungere la semifinale. Contro la Giamaica di recente in Concacaf Nations League perdevano al 93′, per poi pareggiare al 94′ e vincere ai supplementari. Vedremo cosa mostreranno all’esordio contro la Bolivia”.
Qualità a parte, Berhalter ha lavorato soprattutto sulla creazione di una identità di squadra?
“Sta lavorando con questa squadra da 5 anni. Dopo tanto tempo, penso che non sia una questione di personalità dei giocatori, per esempio. L’allenatore sa che personalità hanno i suoi giocatori e deve capire come metterli insieme, le tattiche da adottare e come rendere efficiente la squadra. Vincerà o perderà in base a questo: farà un pressing alto o basso? Avrà un baricentro basso o intermedio? Difenderanno come un grupp? Ci sono tanti fattori, noi non dovremmo stare qui a parlare di tattiche o personalità, perché dopo 5 anni i giocatori sanno che tipo di calcio vuole esprimere l’allenatore”.
Pulisic ha vissuto una grande stagione. E’ un top player?
“Penso che sia davvero un ottimo giocatore. Quando andò in Inghilterra ebbe un buon rendimento, vinse una Champions, certo. Ma al Milan ha trovato un campionato perfetto per esprimersi al meglio, con un allenatore che lo schiera dove meglio può rendere. Andare in Serie A è stata la miglior cosa che gli potesse capitare. Ha ritrovato fiducia, ha segnato, è un leader in campo. Anche se non sono lì a vederlo ogni settimana, penso sia nella top 10 in Italia oggi. Qui tutti sognano la Premier League, il campionato più grande, ricco e seguito del mondo. Ma a volte magari per un calciatore è meglio andare in altri campionati, più adatti al proprio stile di gioco, come appunto la Serie A o la Liga”.
Anche per Weah la Serie A è il posto migliore? Si sta ancora adattando alla Juventus.
“Ci vuole tempo per adattarsi. Alcuni come Pulisic lo fanno subito, altri richiedono più tempo. Vedo che lui a volte gioca come terzino, altre come quinto, altre ancora come ala. Insomma, credo stia ancora cercando il suo posto dove esprimersi al meglio. Capirà se preferisce farlo come terzino o magari in un ruolo più alla Alphonso Davies nel Canada, o ancora come ala per essere libero di attaccare. Dipenderà da lui e da dove si sentirà più a suo agio. Ma credo che il prossimo anno giocherà sicuramente con più fiducia”.
A Palermo Lund si sta facendo apprezzare dai tifosi.
“Sta giocando bene al Palermo. Vale anche per lui, così come per Musah al Milan, quanto detto per Pulisic. Si tratta di trovare il posto giusto dove sapersi esprimere ed è fondamentale sentire la fiducia del proprio tecnico. Quando senti quella e senti che sbagliare è parte del gioco, allora sei a metà dell’opera e tiri fuori il meglio”.
Molti bambini stanno scegliendo il calcio invece che altri sport, anche negli USA. Perché?
“Perché stiamo crescendo molto ed in questo modo ai bambini che crescono conferisci la giusta mentalità, in questo modo ottieni da loro che lotteranno e correranno ogni giorno per arrivare al livello dei big. Tanti giovani che stanno crescendo nelle academies ed in Mls saranno presto in Europa. Stiamo finalmente giungendo al punto in cui si trovano tutti nel mondo: per esempio a Philadelphia un ragazzo di 14 anni ha firmato un contratto professionistico. A 18/19 anni è normale che se non hai ancora debuttato in prima squadra ci si chieda: “Ce la farà?”. Ci stiamo arrivando. C’è il tema degli scout che vengono qui cercando il nuovo Pulisic. Ma Christian volò in Europa a 15/16 anni, lo stesso fecero Weah, McKennie ed altri che partirono presto, prima dei 20 anni. Poi c’è un altro aspetto”.
Quale?
“E’ legato a questo: bisogna lasciar partire presto i ragazzi verso altri campionati, come sta accadendo. Perché così imparano a capire meglio cosa li aspetta. Io andai in Messico e lì capii che tipo di pressione si vive quando devi vincere per forza altrimenti rischi la retrocessione, cosa che non c’è in MLS, campionato che amo, ma che non vive questa pressione. E’ del tutto differente quando senti la pressione dritta sul collo: o vinci o retrocedi”.