Quando il fischio finale dell’arbitro gli stropiccia i timpani, accompagnato dal boato estatico del Monumental Virgen de Chapi, Néstor Lorenzo non riesce a trattenere l’emozione. Non può trattenerla. Si dirige verso il campo, abbraccia uno ad uno i suoi giocatori. Trascina le gambe con un portamento vagamente auto contenuto e visibilmente sfiancato. Il suo Melgar ha appena battuto il Deportivo Cali con una doppietta di Bernardo Cuesta conquistando l’accesso ai quarti di finale della Copa Sudamericana.
È un traguardo senza precedenti – il migliore ottenuto dal club peruviano nei suoi 107 anni di storia in un torneo continentale – e dagli spalti i tifosi inneggiano il suo nome. Urlano a squarciagola il coro «Lorenzoooo, Lorenzoooo, Lorenzoooo nooo se vaaaa». Sono delle istantanee di un’empatia travolgente, ma al contempo di una speranza già ridotta a un cumulo di ceneri bagnate.
Néstor li saluta e li ringrazia, con la mano sul cuore. Indossa una delle sue solite camicie color vinotinto, una delle dieci tutte abbastanza simili tra loro che sostiene di avere nell’armadio. Sono i suoi amuleti portafortuna nelle partite che contano di più. Neanche settantadue ore prima è riuscito a mettere in bacheca il Torneo de Apertura. Trentaquattro giorni prima, però, il 2 giugno 2022, è stato anche annunciato come nuovo DT della Colombia.
Il Melgar ha rappresentato il suo debutto da solista su una panchina, un banco di prova necessario, per crescere, per affinarsi. Dopo una carriera da giocatore passata anche dal nostro calcio, un’apparizione fugace in cui ha conquistato una Mitropa Cup con il Bari e la convocazione con l’Argentina a Italia ’90, Néstor ha infatti trascorso una dozzina di anni al fianco di José Pekérman come assistente tecnico (Argentina Sub–20 e Argentina dei grandi, Toluca e Tigres UANL, fino alla Colombia) e una parentesi di una singola stagione con il Cai Aimar al Leganés, in Spagna. Ha sostituito Reinaldo Rueda, diventando così il quarto argentino a sedersi sulla panchina dei Caféteros dopo Adolfo Pedernera, Carlos Bilardo e proprio quel Pekérman che gli trasmesso la vocazione da tecnico.
L’obiettivo? Rifondare, lasciare al corso d’acqua della storia il trauma e gli isterismi della mancata qualificazione a Qatar 2022 e formare una nuova generazione per condurla verso un divenire radioso. «Non viviamo di ricordi, né di pressione per il risultato», ripete spesso, nelle sue conferenze stampa. Come di frequente, d’altra parte, sottolinea di sentire una connessione speciale con il popolo colombiano. A settembre dello scorso anno, alla vigilia di una sfida contro il Venezuela valida per le qualificazioni al Mondiale del 2026, ha mostrato con fierezza ai giornalisti un rosario appeso al polso destro, che gli è stato regalato da un bambino attraverso uno dei suoi giocatori. Quando poi ha potuto incontrare il piccolo tifoso, lo ha abbracciato e si è commosso.
La Colombia non perde da ventuno partite, diciotto delle quali sotto la direzione di Néstor (13 vittorie e 5 pareggi). La striscia d’imbattibilità più lunga risale al secondo ciclo sulla panchina dei Caféteros di Francisco Pacho Maturana, capace di arrivare a quota ventisette gare senza conoscere sconfitta. Per riuscire a infrangere il record, Lorenzo e i suoi uomini dovranno superare indenni le imminenti amichevoli con USA e Bolivia, il gruppo D della Copa contro il trittico Paraguay-Costa Rica-Brasile e arrivare almeno alle semifinali. Un compito non semplice, vista e considerata la maggiore competitività iniettata nel torneo dalle nazionali Concacaf, ma comunque decisamente alla portata.
Néstor, intanto, sta preparando la valigia. Porterà con sé almeno sette delle sue dieci camicie color vinotinto, negli Stati Uniti, perché il sogno comune è quello di riportare a casa un titolo che manca da ventitré lunghi anni.
Portieri: Montero (Millonarios), Ospina (Al–Nassr), Vargas (Atlas)
A David Ospina, da bambino, l’idea di giocare in porta non piaceva proprio. Aveva cominciato da attaccante e di lui si diceva pure che fosse parecchio portato per il ruolo, in maniera particolare per la sensibilità con cui vedeva la porta e perché sapeva sganciare delle autentiche sabongie con entrambi i piedi. È cominciata così, da questa premessa di ostilità, la carriera di un portiere generazionale nel senso letterale del termine.
Ospina si è regalato una carriera meravigliosa, mettendo da parte la sua avversità per i guantoni. Dal Nizza all’Arsenal, passando per Napoli, senza dimenticare l’Atlético Nacional in cui ha debuttato appena diciassettenne. Indubbiamente meno appariscente di René Higuita e culturalmente molto meno iconico di Óscar Córdoba, si è conquistato di diritto il suo scranno nel gotha degli estremi difensori colombiani.
A questa Copa América ci arriva in linea teorica ancora da capitano, è lui il recordman di presenze dei Caféteros (129 presenze), del resto, il leader dello spogliatoio. Ma Camilo Vargas e Álvaro Montero scalpitano. Da quando è alla testa del gruppo, Lorenzo ha dato molto spazio a entrambi, alternandoli. Vargas è stato il più impiegato e ha ottime chance di guadagnarsi i galloni della titolarità. Da bambino veniva chiamato affettuosamente el Gordo, per via della sua costituzione fisica un po’ rotondetta. Ora, dall’alto del suo quasi metro e novanta, non può che riderci su.
Montero è il più giovane dei tre. Una pertica di due quasi metri, un tipo che non le manda a dire. Da giovanissimo ha lasciato le giovanili del Millonarios perché gli dissero che non sarebbe mai arrivato a giocare in Prima Squadra. Così, prima si è trasferito al São Caetano, in Brasile, dove ha potuto condividere lo spogliatoio con un Rivaldo ormai giunto alla sua penultima stazione prima del ritiro. E dopo al San Lorenzo, vivendo gli ultimi sei mesi della leggendaria carriera del connazionale Mario Yepes. Ora, la porta del Millonarios è roba sua. E la chiamata di Néstor Lorenzo rappresenta l’ultimo diamante sulla corona della sua rivalsa.
Difensori: Davinson Sánchez (Galatasaray), Yerry Mina (Cagliari), Lucumí (Bologna), Mosquera (Villarreal), Cuesta (Genk), Muñoz (Crystal Palace), Arias (Bahia), Machado (Lens), Mojica (Osasuna)
Quello di Yerry Mina che somiglia troppo all’Aristoteles di Oronzo Canà ne L’allenatore nel pallone è un meme invecchiato perfino bene perché davvero accuratissimo, e d’altronde è lui che se l’è cercata venendo a giocare in Italia, ma è comunque ormai sufficientemente sdoganato. Di Yerry Mina sappiamo molte cose, a questo punto della sua carriera. Per esempio, che il suo nome è un omaggio al cartone animato Tom&Jerry.
Nel rettangolo verde, invece, le immagini più nitide che conserviamo di lui sono i balletti che rimandano alla salsa choque (anche Choke) e le provocazioni. Quelle che tante volte gli si sono ritorte contro. Era successo anche nell’ultima Copa América, alla lotteria dei rigori contro l’Uruguay, ai quarti di finale. Yerry segna dagli undici metri e comincia a danzare. Inusuale. Pittoresco. Però, di un pittoresco talmente in contrapposizione coi migliaia di fiati sospesi sugli spalti da risultare quasi irritante, perversamente premeditato.
In semifinale, al cospetto dell’Argentina, qualcuno si imprime per bene nella mente quella polaroid e decide di fargliela pagare. Il Dibu Martínez, serio candidato al Pallone d’Oro del trash talk, gli disinnesca il rigore e gli esulta in faccia. Messi viene colto dalle telecamere mentre gli urla «!Bailá ahora! Bailá ahora Yerry!». Ma Yerry non se la prende. Provoca per gioco e ne conosce bene i rischi, come le conseguenze.
Jhon Lucumí, invece, è quel tipo di ragazzo che parla poco. È approdato al Bologna per non far rimpiangere Arthur Theate, ammantato in principio da un sottile velo di scetticismo. Di tutta risposta, si è rivelato nella qualificazione in Champions League della formazione dell’oriundo Thiago Motta. Sarà lui, con grande probabilità, a contendere la titolarità a Davinson Sánchez, che nel 2017 era diventato l’acquisto più oneroso della storia del Tottenham per 42 milioni (ora è il sesto) prima di passare al Galatasaray. Completa il quartetto Yerson Mosquera, che ama ballare e guarda caso è stato soprannominato Yerry, tra amici e famigliari. Le coincidenze.
Daniel Muñoz l’ho incrociato in un’amichevole di metà stagione, a gennaio, e l’unico interrogativo che mi è frullato per la testa è stato: «Perché non gioca già in un campionato top?». È un cavallo da competizione. Alla fine del mese ha spiccato il volo. Dal Genk al Crystal Palace. Con lui, c’era anche Carlos Cuesta, un ragazzo di una gentilezza disarmante e che conoscevo – almeno in termini calcistici – dagli esordi con l’Atlético Nacional. Può giocare come centrale difensivo oppure come terzino destro, una polivalenza tattica che torna sempre comoda.
Sull’out di sinistra c’è Santiago Arias, che è uno dei pochi superstiti della vecchia scuola. Durante la sua infanzia aveva abbandonato il calcio per dedicarsi alle arti marziali, soprattutto il taekwondo. Ora, dedica ogni sua singola partita a papà Raúl, che lo ha motivato a non abbandonare il pallone prima di essere tragicamente assassinato in una sparatoria fuori dall’asilo nido dove lavorava sua moglie. Il padrone della fascia potrebbe essere Johan Mojica, ma Deiver Machado ha tutta l’intenzione di giocarsi le carte a sua disposizione. In ogni caso, è probabile che uno dei primi tagli nelle convocazioni extralarge arriverà proprio da questo settore del campo.
Centrocampisti: James (São Paulo), Carrascal (Dinamo Mosca) Quintero (Racing), Asprilla (Watford), Lerma (Crystal Palace), Castaño (Krasnodar), Uribe (Al–Sadd), Ríos (Palmeiras), Gómez (Coritiba)
C’è stato un James Rodríguez, prima del Real Madrid. Quello spensierato, che supera le timidezze giovanili (tra cui la balbuzia) grazie al potere taumaturgico del suo talento e fa luccicare gli occhi al mondo intero al Mondiale del 2014, dipingendo una traiettoria impensabile contro l’Uruguay dopo uno stop di petto spalle alla porta ancora più impensabile. E poi, c’è stato un James Rodríguez dopo il Real Madrid. Quello dell’innocenza perduta, che non riesce più a sognare di essere Oliver Hutton come faceva da bambino e che nel presente viene percepito come un talento mai davvero compiuto. Un fuoriclasse cannibalizzato da un’attesa di rivelazione finale poi divenuta pretesa, incapace di vivere la sua caducità con atteggiamento autoassolutorio. La pace non è più riuscito a trovarla, neanche dopo l’addio alla Spagna. Nemmeno negli abbracci paterni di Ancelotti, prima al Bayern e poi all’Everton.
James Rodríguez, se guardato in retrospettiva, come fosse il protagonista di una mostra d’arte, è stato divisivo e ambivalente come pochi. Al–Rayyan, Olympiacos e São Paulo compongono il mosaico di un tramonto malinconico. La Copa América statunitense può essere un lampo abbacinante e improvviso. Quello in grado di squarciare le nuvole e rapire i nostri occhi – e le nostre attenzioni – un’ultima volta.
E di Jorge Carrascal, ne vogliamo parlare? E sia. L’effetto lisergico inoculato dai suoi video skills su YouTube e la sensazione di weirdo trasmessa dalle tappe della sua carriera sarebbero un ottimo connubio per una sceneggiatura Sci–Fi. Ma da dove vogliamo partire? Dal ragazzino che per proteggersi dai pericoli di Bogotá andava in giro armato di coltello? Oppure dal talento emergente che appena arrivato al Siviglia Atlético, una delle porte di servizio per arrivare al Siviglia vero, rischia di ritrovarsi con una gamba amputata a causa di un virus dopo un calvario di tre operazioni al menisco? A voi la scelta. A lui basta non essere definito il Neymar cafétero, il soprannome che gli è stato dato dalla stampa sportiva colombiana. Lo detesta. L’eredità tecnica di James è affare suo. O meglio, può ancora esserlo.
A centrocampo, l’altro immortale della vecchia generazione, risponde al nome di Juan Fernando Quintero. Nella sera più importante della sua vita nemmeno doveva giocare. Aveva un problema al soleo. L’ha deciso lui, con un tiro che aveva appiccicato sopra un biglietto di sola andata per l’incrocio dei pali, quel Superclásico in finale di Libertadores. Quel River Plate–Boca Juniors basta e avanza, come acconto per la gloria eterna. Il nome da segnare in rosso sul taccuino, ma di certo non lo scopriamo oggi, è senza ombra di dubbio Yáser Asprilla. È il quarto debuttante più giovane della storia della Colombia e ne è anche il terzo marcatore più precoce. E se le premesse sono queste, ci sarà da divertirsi.
Sì, tutto bello. Ma qui chi difende? Jefferson Lerma del Crystal Palace, tanto per cominciare, è una prima e più che convincente risposta. Ha segnato pochi gol in carriera, ventiquattro in undici anni, ma in fin dei conti il suo mestiere è un altro. Caso vuole che la sua prima rete da professionista sia stata la millesima della storia dell’Atlético Huila, la squadra che lo ha formato. Sebastián Gómez e Mateus Uribe garantiscono un mix di esperienza e fosforo, ma Kevin Castaño e Richard Ríos rappresentano il nuovo che avanza.
Castaño ha esattamente l’aspetto di un tipo che in campo ti tormenta con una marcatura asfissiante. Ríos, invece, incarna molto di più quel prototipo di centrocampista box–to–box. Da adolescente aveva lasciato il calcio per passare al futsal, diventando peraltro un professionista a sedici anni. Poi, è tornato sui suoi passi, ai campi più grandi. Se non dovesse essere lui, una delle due vittime dei tagli che Lorenzo dovrà effettuare, di sicuro ripenserà con un sorriso a quel bivio giovanile.
Attaccanti: Córdoba (Krasnodar), Jhon Durán (Aston Villa), Luis Díaz (Liverpool), Sinisterra (Bournemouth), Borja (River Plate), Santos Borré (Internacional), Jhon Arias (Fluminense)
Luis Díaz non è cresciuto nelle terre di latte e miele, ma a La Guajira, all’ombra della Sierra Nevada di Santa Marta e vicino alla miniera di carbone di Cerrejón. Arriva da una famiglia indigena Wayuu e per quasi tutta la sua infanzia l’unico sapore che ha conosciuto era quello della carne di capra. Quando ha iniziato a giocare a calcio, suo padre, che è stato anche il suo primo allenatore, alle volte lo teneva in panchina. Lo faceva per dargli più motivazione e per mantenerlo umile. Era visibilmente sottopeso, ma imprendibile. E questa qualità l’ha notata nientemeno che Carlos Valderrama, durante un torneo giovanile in Cile. Ci è arrivato così, con un percorso di crescita netto, fulmineo come uno dei suoi dribbling, al calcio che conta. Baranquilla e Atlético Junior, Porto e Liverpool.
Nella scorsa edizione della Copa América si è consacrato, laureandosi capocannoniere del torneo in concomitanza con Messi. Quella che sta per iniziare, statene certi, vorrà renderla il suo personale show del talento. Il futuro calcistico del suo paese è, soprattutto, roba sua. Chi non disdegnerà i suoi assist è Jhon Durán, uno a cui non dispiace infrangere record di precocità. Agli esordi con l’Envigado ha segnato il suo primo gol contro il Rionegro Aquilas, a quindici anni e centoventitré giorni, diventando il secondo marcatore più giovane della storia del campionato colombiano. Il suo approdo al Chicago Fire, non ancora maggiorenne, lo ha reso il più giovane acquisto internazionale nella storia della Major League Soccer. All’Aston Villa sta affinando i cingoli, per diventare inarrestabile come un tir in discesa. Nel segno di Duván Zapata, uno dei suoi modelli e tra i grandi esclusi di queste convocazioni.
A contendergli il posto ci saranno Miguel Borja e Rafael Santos Borré, che accomunano i propri percorsi in una maglia, quella del River Plate. Borja, prima del fischio d’inizio di ogni partita, si inginocchia e prega: «Ho imparato che chi si umilia sarà esaltato e chiunque si esalta sarà umiliato. Quando un uomo prega è Dio che lavora. E prima di entrare in campo prego che Dio poi si occupi del lavoro», ha raccontato.
Borré, invece, a un certo punto della sua carriera, nel momento del salto in Europa, era arrivato a pensare di smettere di giocare. Nel 2016 era passato in prestito al Villarreal dal Deportivo Cali, ma a gennaio la dirigenza del club spagnolo gli aveva comunicato che non avrebbero più puntato su di lui. Ha sofferto quel momento, ci ha pianto, ma la chiamata di Marcelo Gallardo e il River Plate gli hanno permesso di rinascere. Quattro anni dopo ha attraversato di nuovo l’Atlantico e con l’Eintracht Francoforte ha conquistato l’Europa League, contro il Rangers Glasgow. Un gol nei tempi regolamentari e quello decisivo dal dischetto nella lotteria dei rigori. Ganas por ganar.
Sullo sfondo attenzione anche a Jhon Córdoba. L’attaccante del Krasnodar non partirà forse con il favore dei pronostici, rispetto ai suoi colleghi, ma ha comunque messo a referto diciotto gol (e sei assist) in trentacinque partite, tra campionato russo e coppa nazionale. Andando a segno nell’amichevole contro la Romania dello scorso marzo, ha stabilito un record che durerà in eterno: la prima volta che due giocatori, padre e figlio, segnano un gol per la Colombia. Jhon è infatti il figlio di Manuel Ascisclo Córdoba, che ha giocato con i Caféteros tra il 1984 e il 1985.
Un giocatore che, al contrario, potrebbe trovare parecchio spazio è Luis Sinisterra. Da bambino impazziva, letteramente, non appena arrivava il momento di andare agli allenamenti. Venti minuti separano Santander de Quilichao da Caloto. Gli anni in cui Luis ha iniziato a giocare coincidevano con un momento di alta tensione per tutto il paese. E l’unico campo di Caloto coincideva con un battaglione dell’esercito. I soldati erano sempre presenti nei dintorni e alle volte erano costretti a cacciare i ragazzini dal campo ai primi sentori di un possibile attacco.
C’è anche Jhon Arias, però, che vuole stupire. Nell’ultima Copa Libertadores ha scritto un capitolo indelebile di storia. C’era anche lui, al Maracanã, tra gli eroi del primo e incredibile trionfo della Fluminense nel corrispettivo australe della Champions League. Il suo sogno dichiarato è quello di giocare un Mondiale con la Colombia. E questa Copa América potrebbe rappresentare un ottimo punto di partenza per realizzare quel sogno.
La lista completa dei convocati (saranno effettuati due tagli)
Portieri: Ospina (Al–Nassr), Vargas (Atlas), Monteiro (Millonarios)
Difensori: Yerry Mina (Cagliari), Davinson Sánchez (Galatasaray), Lucumí (Bologna), Mosquera (Villarreal), Cuesta (Genk), Muñoz (Crystal Palace), Arias (Bahia), Mojica (Osasuna), Machado (Lens)
Centrocampisti: James (São Paulo), Carrascal (Dinamo Mosca), Asprilla (Watford), Quintero (Racing), Lerma (Crystal Palace), Castaño (Krasnodar), Uribe (Al–Sadd), Ríos (Palmeiras), Gomez (Coritiba)
Attaccanti: Córdoba (Krasnodar), Durán (Aston Villa), Luis Díaz (Liverpool), Sinisterra (Bournemouth), Borja (River Plate), Santos Borré (Internacional), Jhon Arias (Fluminense)