Seconda stella a zero, questo è il cammino. A parametro zero perché la sostenibilità dell’Inter è stata spesso una genialità. Viva lo zero. Fate i calcoli sugli assi senza esborso per il cartellino che sono arrivati negli ultimi anni, una risposta alla scarsa disponibilità di cassa, la creatività che cresce, il grande lavoro di Marotta, Ausilio e Baccin. In mente due nomi, a caratteri cubitali: quelli di Calhanoglu e Thuram, il primo perché era un trequartista che Simone ha trasformato in superbo metronomo, il secondo perché il Milan ce l’aveva in pugno e l’Inter gliel’ha portato via nello spazio di una notte. Ci sarebbe da aggiungere Mkhitaryan perché è il mix del centrocampista ideale che qualsiasi allenatore vorrebbe. Ma è giusto ricordare Acerbi e Darmian, arrivati non a zero ma per un pugno di noccioline. E quelli che non si distraggono o che fanno finta di dimenticare hanno memorizzato che quelle due operazioni non erano piaciute tanto ai tifosi, come se fossero arrivati due appestati. Il raccolto è stato memorabile, della serie “una società deve fare quello che sente, non quello che il popolo suggerisce con umori spesso ballerini”. Ci sta che il rapporto tra un allenatore (l’impeccabile Inzaghi) e la società possa vivere momenti di bufera, com’era accaduto un anno fa di questi tempi quando il divorzio sembrava inevitabile. Ma ci sta anche che, dopo aver chiarito risalendo la montagna, il legame diventi di cemento armato. Torniamo ai parametri zero: nei minuti in cui l’Inter festeggia la doppia stella, Ausilio annuncia gli arrivi di Zielinski e Taremi pur senza nominarli. Segreti di Pulcinella, certo, ma basta e avanza per ricordare la differenza con il Napoli Campione della scorsa primavera: neanche il tempo di festeggiare che ADL si stava preparando a rompere un giocattolo perfetto. Il divario non sta certo all’interno di banali dettagli, ma è figlia di una programmazione che fa rima con la necessità di avere la pancia piena quando stai urlando al mondo la tua felicità. Alla larga da manie di onnipotenza che hanno inguaiato il Napoli e che permetteranno all’Inter di ripartire a braccetto con la parola “consapevolezza”.
Non servono giri di parole, neanche mezzo giro. Se davvero sarà Ibrahimovic a scegliere il nuovo allenatore del Milan, qualsiasi tifoso rossonero – anche quello più distaccato – si aspetterebbe il top in circolazione. E con tutto il rispetto Lopetegui si è già trasformato in un Nopetegui, semplicemente perché non viene visto come l’ideale soluzione per aprire un nuovo ciclo. E bisognerebbe essere abbastanza d’accordo con chi sostiene che, se si trattasse di Lopetegui o dintorni, sarebbe meglio tenere Pioli. Lopetegui o dintorni significa gente come Fonseca, buoni allenatori ci mancherebbe, ma il Milan avrebbe bisogno di un altro tipo di identikit. Non torniamo su Antonio Conte, ci sembra superfluo: per fare certe cose bisogna essere convinti, agire e basta, capire quale sia il problema e andare direttamente al cuore per risolverlo. Altrimenti, il Milan resterà un punto di domanda rispetto alla necessità di una crescita senza condizioni oppure chissà cosa. Nopetegui e no a Fonseca, in quest’ultimo caso senza il bisogno di storpiargli il cognome. Ma bisognerebbe andare oltre: se Cardinale ha indicato in Ibra il responsabile della scelta, non soltanto ci aspettiamo il top ma anche che venga trovato un modo per non indispettire sia Furlani che Moncada. Altrimenti la presenza di Ibra non avrebbe motivo di esistere, a meno che non sia veramente lui a spingere per Van Bommel come evidenziato dalla Francia. Anzi alimenterebbe solo incomprensioni nella speranza che non diventino gelosie. Esattamente come non avevano motivo di esistere le rassicurazioni di Scaroni, non più tardi di qualche settimana fa, sulla conferma di Pioli per la prossima stagione. Vi avevamo avvertito: certi virgolettati, con tutto il rispetto, valgono come il due di coppe quando regna bastoni.
Leonardo Bonucci avrebbe meritato una stagione diversa rispetto a quella che sta andando verso i titoli di coda. Una stagione con almeno mezza gioia, invece no. Non abbiamo capito per quale motivo abbia scelto l’Union Berlino la scorsa estate, ancora meno la decisione di andare al Fenerbahce lo scorso gennaio. Non per lo spessore dei club, lo diciamo con il massimo rispetto, ma perché sono sembrate forzature rispetto alla volontà del difensore centrale che ha fatto di tutto per restare in Serie A. Il problema è che Bonucci ha avuto quasi tutte le porte chiuse, dalla Roma alla Lazio, dalla Fiorentina a tutti gli altri club che avrebbero potuto ingaggiarlo e che hanno preferito dire “no, grazie”. Diamo un giudizio tecnico, partendo dal presupposto che ognuno può fare come gli pare: quando non ci sono le condizioni, è meglio anticipare una decisione traumatica piuttosto che riscaldare una panchina e assistere mediamente da spettatore non pagante. Stiamo parlando di uno specialista reduce da una carriera prestigiosa, gli scudetti con la Juve più il titolo di Campione d’Europa in quelle notti magiche tutte azzurre e indelebili come un tatuaggio sulla pelle. Proprio per questo motivo sarebbe stato meglio contare fino a 1000 e valutare fino a 10000 prima di accettare esperienze troppo a rischio rispetto a un tragitto che ha sempre visto Bonucci grande interprete. A Berlino si era capito quasi subito che non sarebbe stata una passeggiata di salute, Istanbul ha dato il colpo di grazia a una stagione orribile in tal senso. Il tramonto di una bella carriera dovrebbe essere sempre luminoso: peccato.