La nuova avventura di Giovanni Costantino parla rumeno: dallo scorso 16 ottobre il tecnico messinese ha concluso la sua esperienza a Cipro, all'Agia Napa, per raccogliere in corsa la sfida del FC U Craiova, che sotto la sua guida ha già trovato 3 vittorie nelle prime 6 uscite, risalendo la china di una classifica complicata. Come dimostravano già le precedenti avventure in Finlandia (FC Futura), all'Ungheria (sia club che in Nazionale, al fianco di Marco Rossi), Costantino non sembra spaventato dalle difficoltà di lingua, cultura e metodi di lavoro differenti.
L'allenatore è intervenuto in esclusiva a SPORTITALIA per raccontare il suo percorso, ribadendo a più riprese un concetto: "Il calcio è sempre calcio, in ogni lato del mondo. E lo amo".
La Finlandia è stata la prima tappa del suo viaggio.
"Come contratto professionistico sì, ho iniziato lì. Ho avuto questa opportunità grazie ad un direttore sportivo italiano che conoscevo. Ho lavorato a livello di settore giovanile seguendo praticamente tutte le categorie maschili e femminili, di ogni età. Poi sono andato in Serie A femminile. A quel punto presi il patentino da allenatore professionista in Italia".
Come sta andando oggi al Craiova?
"Sono arrivato in una situazione abbastanza complicata. La squadra era in grossa difficoltà soprattutto dal punto di vista difensivo. C'è qualità, ma subiva troppi gol, infatti aveva la peggior difesa. Ora abbiamo trovato un certo equilibrio, qualche volta abbiamo pagato degli errori individuali davanti, contro l'U. Craiova – l'altra squadra della città e lo Steaua di Bucarest, la squadra più forte del campionato. Siamo riusciti a subire solo due gol su azione ed è un primo risultato".
Ha una sua idea di calcio, o si adatta a quello che trova?
"Penso che ogni allenatore debba adattarsi al materiale umano che ha a disposizione. Cercando piano piano di mettere le proprie idee. E' importante fare così soprattutto quando subentri a stagione in corso, come successo per me a Cipro e qua in Romania".
E le sue idee, quali sono?
"A Cipro c'era un tipo di calcio più diretto, qua invece più di qualità: cerchiamo il dominio, alla De Zerbi e Sarri, per intenderci. Mi piace questo calcio qui, lo considero anche il modo più utile per arrivare alla vittoria. Stiamo costruendo una nostra identità".
Consiglierebbe ad altri allenatori di scegliere l'estero, anche fuori dai campionati top?
"Lo consiglio a tutti, ma non è per tutti, forse".
In che senso?
"E' un'esperienza che ti arricchisce, ti forma: ti trovi a gestire situazioni di difficoltà in maniera esponenziale. Lavori in contesti diversi: non bisogna solo essere allenatori di campo, ma a 360 gradi, adattandosi a volte a mentalità e modi di lavorare diversi, lingua, tutto. Bisogna cercare un compromesso fra la nostra tradizione e quello che trovi: quello che funziona in Italia non è detto che funzioni all'estero. Adattare le idee al contesto in cui ci si trova. Non solo alla squadra, ma anche al contesto, appunto".
Stefano Cusin, altro allenatore giramondo, disse a Sportitalia di non chiamarle "Esperienze esotiche". Anche a lei infastidisce questa definizione?
"Mi è indifferente, sarò sincero: non mi importa molto di quello che dicono gli altri. Mi interessa il calcio, mi diverto con il pallone, in campo. Mi piace a qualsiasi latitudine, è sempre calcio. Sono curioso e non ho pregiudizi nei confronti di nessuno. Non c'è calcio di Serie A e calcio di Serie B, per me. Certo: alcuni posti sono lontani dai riflettori della Champions…".
E lì che motivazioni trova?
"In ogni luogo il calcio ha una sua dignità, un suo contesto. Poi ci sono squadre che fanno competizioni europee e che si trovano ad andare negli stadi italiani in match affascinanti".
Ci parla dell'esperienza nella Nazionale ungherese?
"La Nazionale è diversa dal club, è un mondo a parte. C'è un modo di lavorare e preparare le partite completamente differente. C'è tanta osservazione e meno lavoro sul campo. Tanta preparazione delle situazioni del match e meno gestione del gruppo. Mi spiego: che metti uno o l'altro titolare, va bene comunque per loro: è già un onore far parte dei 23 convocati".
E' il suo punto più alto fino a qui?
"Non saprei, è stata diversa da altre esperienze sicuramente, molto formativa. Sono stato a contatto con giocatori di altissimo livello, facenti parte dei top campionati. Ho dato tanto a loro e ricevuto tanto, da loro".
Szoboszlai penso sia il più forte che abbia allenato. Sbaglio? Che ne pensa di lui?
"Dico che quello che viene fuori di lui è il talento, ma vorrei sottolineare qui la sua intelligenza. Il talento non basta. E' l'esempio di uno che ha lavorato: quando l'ho conosciuto aveva una mentalità… diversa. Ed è cresciuto tanto grazie all'intelligenza, appunto. Intelligenza nel capire che serviva altro e questo "altro" ce lo ha messo tutto".
Quando lo allenava lei le italiane erano in tempo per comprarlo, prima che diventasse inaccessibile…
"Ebbe contatti con Milan, Napoli e Lazio, era anche sul taccuino della Juventus, ma poi scelse una squadra diversa, per la sua crescita. L'intelligenza è data anche da queste scelte".
Perché?
"È passato dal Salisburgo al Lipsia, pensando al fatto che avrebbe trovato un calcio simile, in contesti simili. Fu la scelta migliore. In quel momento poteva andare in Italia invece ha preferito andare lì per migliorare ed essere pronto per la Premier. L'intelligenza non è solo nel lavorare, ma anche nel capire dove farlo".
Tornerebbe in Italia? Quali sono i suoi obiettivi?
"Mai dire mai, ma voglio divertirmi, non solo raggiungere risultati. O meglio, raggiungerli sì, ma in un certo modo, con professionalità e soprattutto divertendomi e facendo divertire i calciatori e chi li guarda. E' questo quello cui aspiro, perché è bello vincere, ma se si pensa solo al risultato poi ci si stanca del lavoro che si fa e non voglio".
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