Doveva essere un editoriale con una notizia clamorosa, ché anzi ce ne sono tre sottotraccia abbastanza grosse per quanto a lungo termine, dunque non pressanti da pubblicare – sempre che qualcuno non le riveli prima. Ma dovranno aspettare.
Perché dentro di me provo un’insopprimibile necessità di tirare fuori il sentimento di disgusto per qualcosa a cui ho assistito venerdì pomeriggio ad Appiano Gentile mentre per Sportitalia informavamo sul prepartita di Torino-Inter.
Personalmente interpreto il ruolo di inviato, tanto come mio lavoro quanto da spettatore che non cesserò mai di essere, come di chi ha l’obbligo di dover riportare sempre qualcosa di diverso visto sul posto con i propri occhi. Dettagli a volte apparentemente insignificanti, ma che rendono sensato lo stare sul luogo e non sulla sedia, e per come interpreto la professione anche più importanti di certe notizie sicuramente essenziali, ma che finiscono per essere aggiornamenti ugualmente condivisi da tutti gli organi di stampa. Per carità, può piacere o non piacere quello che faccio, può essere condiviso o meno il mio approccio, ma ritengo il lavoro di inviato che si consuma le suole sul marciapiede ancora sensato solo se svolto con questa prerogativa.
Era una doverosa premessa per far capire quello che sto per raccontare. Trascurabile in sé, ma sento che restituisce una fotografia avvilente di ciò che succede.
Venerdi è stata la giornata in cui il mondo Inter è stato colpito alla mattina dalla rivelazione della gola profonda del caso scommesse, che al giornale La Verità ha raccontato di aver saputo per sentito dire di altri tre nomi coinvolti nello scandalo, tra cui quello di Nicolò Barella. Dopo poche ore, Barella ha rotto gli argini e ha pubblicato delle stories durissime dando dei pagliacci a La Verità, raccontando che per troppo tempo è stato in silenzio evidentemente ascoltando speculazioni, e che da questo momento avrebbe reagito in sede legale per tutelare il buon nome della propria famiglia e ovviamente suo, aggiungendo che gioco d’azzardo e scommesse non sono mai stati graditi nel suo ambito.
Le stories sono state pubblicate un paio d’ore prima dell’allenamento dell’Inter, e mentre tra una diretta e l’altra mi ero allontanato da Appiano Gentile per la pausa pranzo, ho incrociato in auto proprio Barella, che evidentemente riconoscendomi mi ha salutato.
Un gesto in sé piccolo ma che ho ritenuto altamente dignitoso in una mattinata in cui probabilmente avrebbe voluto prendere a pugni il mondo dalla rabbia, e infatti più tardi facendo il mio lavoro da giornalista ho appreso come Barella al di là del cancello di Appiano non fosse il solito Niccolò di compagnia, ma dall’umore rabbuiato, come è facilmente comprensibile.
Era una giornata infame venerdì, secchiate d’acqua continue, cielo lugubre e un ventaccio da tempesta. Non dico questo per fare il narratore all’americana, ma per far capire come fosse sfavorevole per i tifosi andare ad Appiano all’allenamento per un autografo o per sbirciare.
E infatti è stata una delle rare volte, forse la prima, in cui per ore non c’era davvero nessuno fuori dal Suning Centre. Di solito si trova sempre almeno un tifoso, invece stavolta nessuno di nessuno, se non l’inviato qui presente zuppo d’acqua tra una diretta e l’altra.
Proprio in concomitanza con l’allenamento dell’Inter il tempo si è un minimo rabbonito, quantomeno smettendo di tirar giù gavettoni.
Mentre ero in macchina aspettando di tornare in diretta, sono arrivati i primi e unici due tifosi della giornata.
Due ragazzotti tra i 20 e i 25 anni, ben vestiti e atletici, curati e belli allegri.
L’allenamento era iniziato da poco, da fuori provavo inutilmente a carpire qualcosa, mentre i ragazzi passeggiavano per fotografarsi davanti ai simboli dell’Inter. Non avevano nessun oggetto che tradisse il loro interismo, certo sembravano tifosi nerazzurri, per quanto potessero anche essere milanisti o juventini. Ma tra poco capirete che in nessuno dei tre casi farebbe alcuna differenza.
Perché mentre ero appoggiato a una balaustra aspettando in silenzio, ho assistito a questa scena.
I due ragazzotti si sono sistemati in direzione della feritoia nella recinzione dove si intravede un giocatore, hanno puntato il telefono, e hanno aperto il mirino per registrare le stories.
Hanno aspettato qualche secondo, finché in asse con la visuale è spuntato un calciatore.
Ha fatto capolino Sommer. E’ rimasto qualche secondo fermo in direzione dell’obiettivo.
E lì loro hanno sparato la loro story.
Premuto rec, hanno alzato la voce. E ridendo, hanno gridato: “Sommer, chiamaci Barella! Ahahah!”.
Ci ho messo qualche secondo a processare quanto avessi visto.
Dopo lo shot, tutti tronfi per il lavoretto confezionato, hanno smanettato un po’ sul cellulare, si sono fermati qualche minuto, per poi rimontare in macchina e tornarsene da dove sono venuti.
E’ difficile descrivere il senso di squallore che ho provato.
Affrontare anche le intemperie, fare quella strada, per cosa? Per venire a utilizzare un personaggio come una marionetta ad uso e consumo della tua story su Instagram. Beffandoti del suo tormento, perché in fondo te lo proibisce qualcuno? E allora perché no.
Avrei persino potuto capire un tifoso incazzato magari che – sbagliando, perché Barella non è indagato – fosse venuto a sfogare la sua delusione. Ripeto, sbagliando, perché qua al momento non c’è niente, ma sarebbe stata la reazione errata derivante da un sentimento, da un rispetto.
Ma quello a cui ho assistito è il vuoto totale, la negazione dell’altro come persona.
Il personaggio è solo strumento per fare una story in cui è figo deridere un altro essere umano, soprattutto se è in situazione di disgrazia..
E attenzione, questo varrebbe sia nel caso di un colpevole che di un innocente. Perché in un caso si può capire la rabbia, non giustificare ma capire, o nell’altro la solidarietà. O magari in entrambi i casi, perché anche se colpevoli stiamo pur sempre parlando di esseri umani che sbagliano, di persone che si possono essere comportate in maniera stupida, ma questo non autorizza chicchessia ad arrogarsi la statura morale di trattarli con disprezzo.
E invece, il peggior scenario.
Una persona, allo stato dei fatti infangata arbitrariamente, spersonalizzata dell’essere qualcuno per diventare una marionetta per una story di derisione.
Ho ringraziato di essere un osservatore esterno e di non lavorare per l’Inter, perché non so altrimenti se sarei stato capace di controllare il mio sdegno.
Nel degrado umano che questa banalità del male ha lasciato, mi ha ferito ancor di più quanto quei due ragazzotti nemmeno si rendessero conto della fortuna che avessero.
Ricordo tutte le prime volte in cui sono entrato ad Appiano, a Milanello, a Vinovo e alla Continassa, a Trigoria e ai campini di Firenze, e ricordo l’emozione di poter avere la fortuna di essere in posti simili.
Non ho la presunzione di pensare che tutti la debbano sentire come me, ma questo svuotamento totale del valore è stato avvilente. Una cosa ti può importare o ti può essere indifferente. Ma che venga disprezzata per gioco, ha un effetto straniante.
E’ dunque ridotto tutto a questo? A fare la story e usare gli altri per farla? A giocare a fare la iena sul nulla? A una sorta di bullizzazione istituzionalizzata? C’è la story, dunque tutto è giustificato se serve a una story?
Non so se questo abbia un significato. E non sono certo un passatista che butta la croce sui social e sul si stava meglio quando si stava peggio – non posso e non voglio di certo: i social sono uno strumento poderoso, ci puoi cambiare il mondo e fare grandi cose, io vi ho conosciuto amici veri, fatto lavori che non avrei immaginato, e ho potuto fare meraviglie sin da quando nel 2011 per primo tra Italia e estero su Twitter cominciai a parlare di calciomercato.
Quindi non dirò mai di tornare indietro. E anche facessi quell’errore, tanto il vento non lo fermi con le mani.
Ma credo che in quello che spaventa ci sia qualcosa in comune.
Che tutto si tenga quando sei solo a un click di distanza dal buttare la tua vita, o dall’usare la vita e la sofferenza degli altri per farti due risate.
Non troverete una soluzione alla fine di questo. Cosa ne posso sapere io.
Forse, il fatto che uno sia libero di poter fare una cosa, non significa che sia giusto farlo.
Niente è mai solo un click.
P.S.
Se ancora siete qui, prima di andarvene, vi regalo questo.
Alla fine dell’ultima diretta da Appiano, mentre mi preparavo ad andare, arriva una macchina con una mamma e una ragazzina, che erano già passate velocemente un paio d’ore prima in mezzo al tempo infame.
“Scusi, il pullman dell’Inter è già andato via?”, ha chiesto la ragazzina abbassando il vetro.
“Eh si, proprio 10 minuti fa”, le ho risposto.
E la ragazzina arrabbiatissima girandosi verso la mamma: “Ecco mamma! Te l’avevo detto che partivano! Dovevamo arrivare prima, me li hai fatti perdere!”, mentre la madre alzava gli occhi al cielo misericordiosa, pronta a sorbirsi la ramanzina.
Perché perfino in una giornata infame come quella di venerdì, se ti guardi attorno la speranza c’è sempre.
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