Camerun, Libia, Bulgaria, Palestina, Iran, Arabia Saudita, Sud Sudan ed ora Comore: sono solo alcune delle infinite tappe che stanno portando l'allenatore italo-canadese, Stefano Cusin, a lavorare letteralmente in ogni angolo del globo. Nessuna paura o freno per l'allenatore che ha cominciato il suo girovagare già prima di incrociare nel suo percorso, Walter Zenga, aiutandolo nell'esperienza in Inghilterra, al Wolverhampton, oltre che all'Al-Nassr, ben prima che si rinforzasse con i grandi campioni arrivati negli ultimi anni dall'Europa.
In esclusiva per SPORTITALIA Cusin ha parlato della sua nuova avventura, ripercorrendo alcune tappe significative del suo girovagare.
Mister, da che Paese ci sta rispondendo?
"La sorprenderò: dall'Italia (ride, n.d.r.). Ma sono appena arrivato ed è perché faremo il ritiro in Francia con i ragazzi, quindi vado qualche giorno prima a vedere l'albergo e le strutture che ci attendono".
Conosce già i giocatori delle Comore?
"La squadra la conosco, l'avevo vista in Coppa d'Africa, in Camerun. Il capitano El Fardou Ben l'anno scorso allo Stella Rossa è stato fra gli stranieri con più gol. M'Changama è al Troyes, il portiere Pandor era in panchina ieri sera nel Lens, con cui ha battuto l'Arsenal in Champions. Seguo da sempre il campionato francese. Mi è piaciuto molto il Presidente, una bella persona con le idee chiare. Un contesto discreto: non si parte da zero, ma da una base di giocatori e ci sono tutti i requisiti per fare bene".
Cosa la spinge ad accettare sfide così distanti, geograficamente?
"La geografia è una cosa psicologica. Ricordo quando Zenga parlò con un collaboratore che gli disse: 'Non posso venire lì perché è troppo distante'. E lui gli rispose: 'Ma se stai lavorando a Palermo, quante volte la vedi la tua famiglia?'. Che tu sia a 5 ore di aereo da casa o a 3 ore, cambia poco. Non è il 'dove' a contare, ma la qualità del lavoro che si può fare".
La famiglia, lei, la riesce a vedere spesso quindi?
"Sì, specialmente in questo caso tutti i calciatori sono in Europa. Ce n'è anche uno all'Herta Berlino, da convincere (ride, n.d.r.). Sarò spesso qui".
Allenando in Paesi così, immagino che di inconvenienti ne abbia dovuti gestire…
"Sono all'ordine del giorno! Quando esci dai confini puoi trovare qualsiasi cosa. Se tu sei Ancelotti, ti chiamano Bayern e Real, allora le strutture che trovi saranno sempre all'avanguardia. Ma quando vai in Palestina…".
Ci racconti.
"Mi sono ritrovato a fare la finale di Coppa a Gaza e sono stato ricevuto in un bunker sotterraneo dal capo di Hamas, Ismail Haniyeh, uno degli uomini più ricercati al mondo, sentendomi chiedere: 'Come si fa a fare calcio?'. Sono momenti così…".
Ha mai avuto paura?
"Mai. Quando ero in Libia avevo un rapporto stretto con il figlio di Gheddafi, persone molto difficili da allenare con le quali avevamo un confronto quasi giornaliero. In Camerun il Presidente mi disse: 'Non capisco perché gli operai lavorano 8 ore ed i calciatori soltanto due: proporrei una riforma, i giocatori dovranno allenarsi come minimo 8 ore al giorno!'. Persone genuine che ti fanno amare questo sport. Sono deluso da una cosa della stampa italiana".
Cosa?
"Quando, in questi casi, parla di 'avventura esotica'. Cosa vuol dire? Ho allenato anche giocatori che hanno vinto il Mondiale come Luca Toni. Allenare è allenare. Tanti giocatori che alleno oggi, alle Comore, potrebbero giocare in Serie A o B".
Ha raccontato di quando hai conosciuto Zenga parlandoci per ore: cosa vi ha fatto legare?
"15 anni fa non erano tanti gli italiani che lavoravano all'estero e lui aveva fatto una scelta perché aveva già lavorato in Romania e in Serbia ed anche la mia era una scelta. Ci ha uniti il fatto di vedere il mondo più grande, nella sua interezza: non solo Milano, Torino o Roma. Parlando di calcio siamo scivolati sugli aspetti culturali"..
Con lui ha vissuto l'esperienza in Inghilterra.
"Ricordo tutto. Stavo per andare in ferie e mi chiamò: 'Domani dobbiamo essere a Londra". "Stai scherzando?" – risposi. 'No, alle 7 dobbiamo essere lì, ho firmato per il Wolverhampton'. Stati pieni, nonni a braccetto con nipotini. Vittoria in trasferta con Newcastle di Benítez poi promosso in Premier League. Posto meraviglioso, ma siamo arrivati al posto giusto al momento sbagliato. La presidenza aveva comprato da poco, troppi giocatori nuovi tutti insieme con una preparazione fatta da un altro allenatore".
Lo seguirà ancora?
"È stato il primo a farmi i complimenti quando ho firmato per le Comore. Ci sentiamo sempre. Perché no? Come un matrimonio che non finisce mai. Gli sono molto riconoscente, lo sarò sempre".
Vi siete sentiti "chiamati in causa" questa estate quando c'è stato l'esodo verso l'Arabia Saudita?
"Siamo stati lì quando nessuno ci andava, come italiani soprattutto. Allenavamo l'Al Nassr, che anche allora era uno squadrone. Eravamo secondi e stavamo facendo bene, con stranieri normalissimi, il migliore era Petru che arrivava dal Modena. Era un altro mondo: il principe Bin Al-Salman non era ancora al trono, lui ha portato grandi riforme, ora è un altro Paese. Ricordo un episodio".
Quale?
"La prima trasferta a Najran al confine con Yemen arrivammo alle 3 di notte, pensavamo di trovare un deserto, invece ad aspettarci c'erano 5 mila tifosi dell'Al Nassr che cantavano. Walter è stato un precursore in tante cose, anche in questo".
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