Facciamo un sincero bocca al lupo a Luciano Spalletti che ha coronato il sogno di qualsiasi allenatore. È il caso di ribadirlo? Ribadiamolo. Qual è il sogno di qualsiasi allenatore? Fare il selezionatore, finire sulla panchina azzurra, varcare il portone di Coverciano e barricarsi dentro nella speranza di poterci stare il più a lungo possibile. Spalletti a Napoli ha completato un lavoro incredibile, lo rimpiangeranno. E ci sono le condizioni perché si ripeta in FIGC, ripristinando quel minimo di meritocrazia che Mancini aveva messo sotto i piedi. Mancini si faceva fare i complimenti per aver convocato Zaniolo, ma poi il campionato lo riteneva un optional e lasciava a casa chi aveva rubato l’occhio per tutto l’anno. L’esempio Zaccagni rende l’idea perché Mancini vuole vincere, con le sue spiegazioni, anche quando ha straperso. Spalletti ci fa venire in mente Garcia e l’eredità che ha rilevato a Napoli. Un’eredità difficile non soltanto perché Garcia – non ce ne voglia – è meno bravo di Luciano e qui sono considerazioni strettamente personali, quindi opinabili. Un’eredità difficile perché bisogna agire con una certa logica e non con improvvisazione: il nuovo ruolo imposto a Raspadori nello spicchio di partita contro la Lazio ci ha scandalizzato per il semplice motivo che in quella posizione non può giocare. Non caschiamo nella trappola di giudicare o “massacrare” Garcia dopo una sconfitta in campionato, sarebbe un discorso da prevenuti in malafede. Ma servono le cose semplici, non gli esperimenti astrusi. Il Napoli ha un grande organico, non certo un’utilitaria che deve andare a 200 orari sull’autostrada. E il grande organico deve essere utilizzato senza esperimenti a casaccio, Spalletti era una guida anche per il suddetto – fondamentale – motivo. Garcia memorizzi e non ripeta scelte astruse, senza una logica.
I nostri complimenti più sinceri e sentiti ad Alessandro Buongiorno che ha fatto saltare i piani di Cairo, pronto per una grande plusvalenza in casa Toro. Siamo completamente d’accordo con lo striscione esposto domenica scorsa dai tifosi granata. Non ci vuole uno scienziato per capire che le bandiere non si vendono, i capitani neanche, a maggior ragione quando mancano tre o quattro giorni alla conclusione della sessione estiva di calciomercato. Qualsiasi altra idea andrebbe respinta con forza e senza pensarci mezzo secondo. Il Torino aveva deciso di fare cassa: non discutiamo (e ci sarebbe da discutere) sul fatto che Buongiorno possa anche essere cedibile, ma certe si fanno (forse) a un mese dallo stop delle trattative e non quando mancano un centinaio di ore. Buongiorno si è messo di traverso, il suo club non avrebbe potuto certo costringerlo. E siamo felici per i tifosi del Toro che ci mettono la passione, da sempre, pur dovendo spesso incassare qualche cazzotto non previsto. Un bel Buongiorno, e lasciamo la B maiuscola, è quello di Marcus Thuram, il signor parametro zero arrivato dopo un lungo e acrobatico inseguimento. Il figlio d’arte si è preso l’Inter con la personalità che nessuno gli discute e con le giocate che ha subito messo in evidenza. Gli piace stare dentro la scena, se l’è presa. Gli piace avere al suo fianco Lautaro, come se giocasse in coppia da quattro o cinque anni. Ci sono operazioni a zero che valgono, molto spesso se non sempre, la candela: paghi nulla per il cartellino, male che ti dovesse proprio andare sarebbe plusvalenza. Nel caso di Thuram la sensazione forte è che l’Inter abbia fatto un capolavoro, tornando sulla presa quando sembrava che il destino del figlio d’arte dovesse essere altrove.
Il tempo degli alibi è finito, inesorabilmente. E ora José Mourinho deve darsi una mossa, ben oltre i suoi amici giornalisti o direttori che lo difendono anche quando sarebbe impossibile. Per un’intervista in più c’è chi si butterebbe nel fuoco, per un libro totalmente dedicato non ne parliamo. L’inattendibilità di certi commenti andrebbe pesata nelle edicole ogni giorno, da anni, sempre più deserte. Quindi, andiamo oltre i ruffiani in servizio permanente effettivo che non hanno occhi per guardare e che si rifiutano di dare un giudizio equilibrato, competente e coerente. Diciamo la verità: in due anni abbondanti non ha dato un gioco alla Roma, neanche per sbaglio. Certo, ha vinto una Conference, ma si può fare puntando sulla forza di qualche singolo: è andata esattamente così. Nelle scorse settimane abbiamo difeso Mourinho, apprezzandolo per i suoi toni bassi dinanzi ad alcuni ritardi sul mercato legati all’arrivo della famosa prima punta che serviva come l’ossigeno. In volata è arrivato Romelu Lukaku, c’è poco da aggiungere, è stata completata la migliore operazione possibile in rapporto a un budget inesistente. Ma adesso Mourinho deve concedere la grazia di dare uno straccio di gioco, negli anni gli hanno fatto un bel po’ di regali ma abbiamo assistito al solito – improbabile – modo di fare calcio. Mou stia sereno, avrà sempre al suo fianco giornalisti e il medesimo direttore che gli diranno “bravo, sei il migliore” anche se dovesse arrivare nono, decimo e undicesimo. Ma non è quello il termometro (la gente intelligente, libera e democratica lo sa), anzi quel metodo lascia semplicemente nell’imbarazzo di un eterno servilismo. Il termometro è un altro: se dopo tre anni di Roma giallorossa Mourinho non avesse centrato almeno una qualificazione Champions, neanche il ruffiano più ruffiano al mondo troverebbe le parole giuste per difenderlo. Piuttosto che un termometro, ora serve la clessidra: bisogna trovare uno straccio di gioco, il tempo non è eterno e sta scadendo. Gli appecoronati non fanno di sicuro il bene della Roma.
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