Giustizia sportiva, Nazionale e calcio italiano sono argomenti legati da un comune denominatore. Hanno un vertice dirigenziale clamorosamente inadeguato. Gravina e Mancini sono le due facce della stessa medaglia. Una medaglia di plastica rispetto a quella di metallo puro che stanno mostrando i nostri club in Europa. Possibile non rendersi conto dello stridore fra due realtà così diametralmente opposte? Mentre le nostre squadre fanno tremare l’Europa in tutte le manifestazioni, la Nazionale arranca e continua a perdere anche dopo una vergognosa eliminazione dal Mondiale. Le mancate dimissioni di Gravina e Mancini rappresentano un peccato così gigantesco da scatenare una malinconica crisi di rigetto nei confronti della nostra rappresentativa più amata. Crisi che coinvolge spettatori e giocatori. Mentre un cambio avrebbe rappresentato linfa vitale verso un miglioramento, la stagnazione deprime ogni slancio di rinnovamento. Ricordiamo che Abete e Prandelli ebbero la dignità di dimettersi dopo il deludente mondiale in Brasile del 2014 ma almeno erano arrivati fin lì e comunque Prandelli aveva raggiunto una finale europea due anni prima. Insomma il calcio è momento, non è storia. Il calcio è privo di riconoscenza. Il calcio è scoperta. La memoria riempie gli albi d’oro, non aiuta a vincere le partite. Per ottenere risultati bisogna scegliere il meglio che c’è in un dato periodo e saperlo mettere in campo. Senza far prevalere l’orgoglio personale come nel caso Zaccagni che fa a pugni con la pazienza dimostrata invece nei confronti di Balotelli. Mancini è un formidabile allenatore e nessuno può dimenticare l’Europeo vinto, ma dopo l’eliminazione dal Mondiale la sua strada è diventata drammaticamente in salita e avrebbe dovuto capirlo da tempo. La Nazionale non ride, ma la giustizia sportiva piange. Se, e ribadiamo se, il Collegio di Garanzia del Coni, il 19 aprile, dovesse cancellare (per motivazioni insufficienti o vizi di forma) la decisione del meno quindici comminata dalla Corte d’Appello alla Juventus, il presidente federale non avrebbe più scampo: dovrà dimettersi prendendo atto dell’evidente inadeguatezza degli organismi disciplinari da poco riformati dallo stesso Gravina. Non ci sembra normale che in prima istanza ci sia una sentenza, in seconda un’altra e in terza ancora un’altra. E non sarebbe la prima volta. Tutti ricorderanno il papocchio fra Napoli e Juve durante la pandemia: si passò da uno 0-3 a tavolino, a partita da rigiocare con intervento delle ASL campane. Sempre con sentenze diverse in ogni grado di giudizio.
Comprendiamo la necessità della giustizia sportiva di essere celere ma in questo modo non si capisce nulla e soprattutto si trasmette un sentimento di profonda ingiustizia. Che senso avrebbe togliere quindici punti a una squadra per poi restituirglieli tutti o quasi a campionato in corso? Se togli, momentaneamente, a qualsiasi club la possibilità di raggiungere un obiettivo neghi, alterandola, la natura stessa della competizione. Come se non bastassero i guai in casa si mette anche l’Uefa di Ceferin e degli sceicchi a condurre battaglie contro chiunque si frapponga sul loro cammino per risollevare i club dalla crisi e per uscire da un’egemonia antistorica e indegna che ha prodotto quel bel pateracchio del Mondiale in Qatar. E non parliamo solo di Juventus: sentito De Laurentiis di recente? Per carità, non chiamatela Superlega, ma un modo diverso di concepire le competizioni deve pur esserci. E ricordiamo che il periodo d’oro per il calcio cominciò proprio in quel 1986 al quale fa riferimento il presidente del Napoli quando il campionato era a sedici squadre, si giocava di meno, ma l’attesa di qualsiasi avvenimento era vissuta e narrata in altro modo. Oggi, nel nome di un consumismo sfrenato non si apprezza più nulla e si bruciano in un lampo milioni e campioni. C’è ancora un grande desiderio di calcio e le nostre squadre in Europa stanno dimostrando di tenere testa a squadroni con ben altre risorse, ma è tempo di cambiare a tutti i livelli.
Paolo De Paola
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