Ciao,
Se ti chiedono di che squadra sei, rispondi con la tua solita sicurezza e disarmante credibilità con il nome di un’altra squadra. Anzi due, che tra di loro poi manco non c’entrano nulla, perché una la “tifi”, l’altra la “simpatizzi”, detto con la tenera innocenza dei bambini che a volte hai. Un’altra delle tue meravigliose contraddizioni, che raddoppia ancora: perché per chi sogna, chi ama la Bellezza, chi sa brillare di luce propria senza compromessi come te, c’è una sola squadra. Se non ci credi, ti aspetto al più presto insieme al Museo di Casa Milan, ma intanto leggi questa lettera con la testa leggera. Anche se non lo sai, o semplicemente non lo ammetti, il tuo cuore batte per Lei.
Lo sai qual è la prima squadra italiana per Coppe dei Campioni vinte? Sono sette, il numero della completezza per diversi appassionati di numerologia. Anche se sì, potevano essere almeno nove, se il Dio del calcio non fosse stato così crudele con noi, in un paio di partite tristi.
Ah, e lo sai qual è la prima squadra italiana ad averla vinta, la Coppa dei Campioni? 22 maggio 1963, nello stadio più iconico della storia del calcio europeo, che resterà per sempre nella memoria di tutti. Tutti aspettavano Eusebio, ma la regina di Inghilterra era José. Altafini, l’amico di Pelé.
E quella Coppa, che le orecchie le aveva piccole, non come quella di oggi, lo sai chi la alzó? Il Capitano, Cesare. Di cognome, Maldini. Papà di Paolo. Che sempre in Inghilterra, 40 anni e 6 giorni dopo, alzó da Capitano la Sesta. Lo sai quanti padri e figli hanno alzato da capitano la stessa coppa e con la stessa maglia? Solo loro. Lo senti quel brivido sulla pelle a pensare che possa essere successo davvero?
Se fossimo nati negli anni 60 però, delle teste come le nostre avrebbero amato il maestro del Calcio Totale, Rinus Michels. Ma soprattutto, avremmo amato Johann Cruijff. Quello per cui “Meglio perdere con le proprie idee che perdere con quelle di un altro”. Il Profeta, di finali di Coppa dei Campioni ne ha giocate 4, di cui 3 contro squadre italiane. E quale ha perso? Madrid 1969. Perché a volte quelli nati in provincia, in mezzo alle risaie e con la faccia da bravi ragazzi, sanno darti molto di più dei belli e dannati. E il Dio del Calcio ci mandó Gianni Rivera per quella Coppa. E non solo. Per combattere il sistema, i soprusi di chi comanda, la cattiveria di chi ci stava intorno. Per farci sentire sempre soli, dalla parte sbagliata, ma uniti tra noi come fossimo una cosa sola e per questo accorgerci di essere dalla parte giusta. E per la Stella, la prima, al momento l’unica, quando San Siro era così pieno che Gianni, col microfono in mano, chiese di scendere dagli spalti. E tutti lo fecero.
Ma quando nasci nel segno della meraviglia e dell’incanto, ma nessuno ti ha mai regalato nulla, quando cadi, cadi forte e ti fai malissimo. E allora due retrocessioni, una peggiore dell’altra. Una in tribunale, l’altra vittime di un imbroglio. Ma se mi chiedi quale partita avrei voluto vedere dal vivo nella mia vita, io non ho dubbi. Risponderei sempre l’1-2 con la Cavese a San Siro, al fianco di Franco, Sei per sempre. Perché chi ama, lo fa nel dolore prima ancora che nella felicità. Quando tutti se vanno e si girano dall’altra parte, tu resti lì. Magari invisibile, in silenzio. Ma dentro bruci d’amore e di odio, le forze che governano il cuore e si confondono fino a somigliarsi senza distinguerle più. E stai fallendo, maledetto Giussy Farina. L'amore tossico ti sta distruggendo. Ma tu non puoi farne a meno. Finché esiste, lo seguirò.
Ma poi un giorno arriva un elicottero… Un pazzo che vuole cambiare il mondo, che sceglie un pazzo che vuole cambiare il calcio. E la vita ti sorride come se le sofferenze non fossero mai esistite. E poi c’è Lui. Il viso pulito, perché Utrecht è come Alesssandria. Le movenze più aggraziate che vedrai mai più nelle tua esistenza. Un giocatore del 2020, nel 1988. Non è l’uomo venuto dal futuro, solo perché non è mai stato solo un uomo. Se oggi scrivo per mangiare, se il cuore mi batte, se so cos’è l’amore, lo devo solo a Lui.
Anche se so cos’è il dolore. Perché se ne va troppo presto. E meno male che le giacche di renna non vanno più di moda, perché altrimenti troppe allergie avremmo dovuto inventare per giustificarci davanti a tutti. . “Ho bisogno… di qualcosa di vero che illumini il cielo, proprio come te”. Così cantava Zucchero quell’anno. Una storia di un amore che stava per finire. Ma il nostro amore, per Lui, non finirà mai.
La tentazione di fermarci qui, per un attimo, mi sfiora. Ma un anno prima di quella maledetta sera, una carezza dal Montenegro ci fece piangere di gioia. Perché Marco è Marco. Ma Dejan ci ha confuso. Perché per citare Bukowkski, “Dio se era tutta matta, ogni giorno era una donna diversa (…). Era matta, tutta matta. Ma l’ho amata da impazzire”.
Negli 2000, Sheva e Ricky, Sandro e Pippo. Clarence e Rino. Ma soprattutto Carlo. E una lezione di vita che ci servirà per sempre, quando toccherai il fondo: dopo Istanbul, c’è sempre Atene. Almeno per noi che ce lo meritiamo. Dopo le lacrime, c'è sempre la gioia. Anche se dura poco. Ma vale per sempre.
Quando ti senti incapace, quando pensi di aver scelto la strada sbagliata, di aver buttato il tuo tempo con la persona sbagliata e nella cosa sbagliata, ne prendi 5 a Bergamo. Ma poi, con Oli, Theo, Zeta e Rafa “Succede solo a chi ci crede”, a noi poi lo sai? È successo davvero.
E oggi che sognavamo un’altra Stella ma la vediamo andare via quasi definitivamente già a dicembre e non sappiamo come andare avanti ogni giorno senza di lei. Oggi che il nostro sogno, l’Ottava, anche stavolta deve durare un anno in più. In questo 2023 di 5 Derby persi, di cambiamenti di vita, di litigi feroci e dolori lancinanti. La strada è sempre la stessa. Anche in questi giorni difficili dove sembriamo distanti come non mai, siamo sempre qui. E ci siamo sempre rimasti. Nelle cose importanti, nelle sostanza, nei sentimenti. Nel cuore. Che batte allo stesso ritmo. Che tira fuori solo il veleno e sembra velenoso. Ma è così perché ciò che c'è di buono lo tiene sempre dentro, prezioso com'è, per proteggerlo e non perderlo mai.
Siamo alle ultime righe, ma quella parola ancora non l’ho scritta. Perché questa storia non parla solo di Lei, ma parla di Noi.
Di me, che per questo sogno vivo da 38 anni. Di te, che non sai ancora bene per che sogno fai i tuoi mille sacrifici ogni giorno e oggi ti senti sola. Ma che vivi e sei esattamente così, al sole, libera, meravigliosa, come solo tu sai essere. E anche di te, Mr. Gerry Cardinale, che forse di tutto questo non hai mai saputo niente e ancora non lo sai, ma che hai in mano i nostri cuori e porti l’onore e l’onere di doverli maneggiarli con cura.
Per chi sceglie sempre la perfezione, l’estetica, il gusto. Chi lotta, chi soffre, chi ragiona col cuore. Chi convive col dolore, chi si tormenta e non si rende conto invece di quanto infinitamente valga in ogni sua forma e manifestazione, ogni giorno di più. È questa, la nostra vita, la nostra storia. E lo sarà sempre. Anche se penserai di tifare altre squadre e lo racconterai col tuo sorriso meraviglioso. Perché forse pensi che tifare quella giusta sia un peso troppo grosso. E non capisci che in fondo è solo il peso di essere sempre te stessa, senza fare nulla di più, difetti inclusi. E in questo pezzo trovi le risposte di chi ha imparato ad amare le domande.
Per tutti noi, che abbiamo avuto questa avventura – volendolo o no, come una croce – di intrecciare la nostra vita a un sogno che si chiama… Milan.
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