Jean Pierre Adams, in una foto d'archivio agli esordi con il Nizza
La storia di Jean Pierre Adams è estremamente triste e poco nota alle nuove generazioni, in anestesia per un banale intervento al ginocchio non si è mai risvegliato
I giornali francesi non si occupavano più di lui da anni. Di tanto in tanto qualcuno pubblicava la tristissima storia del ‘calciatore in coma eterno’, così come era stato definito dall’Equipe molti anni fa. Si chiamava Jean Pierre Adams.
Calciatore professionista con una carriera importante nelle fila di Nimes, Nizza, Paris Saint Germain, Mulhouse e Chalon e con 22 presenze all’attivo con la nazionale francese, Adams è stato un caso più unico che raro. Una vera macchia per il sistema sportivo e di medicina sportiva francese.
A 34 anni, era il 1982, aveva deciso di sottoporsi a un intervento chirurgico per rimediare a un infortunio al tendine del ginocchio. Aveva appena rinnovato il suo contratto con lo Chalon e il suo programma era quello di giocare per altri due anni mentre prendeva il patentino da allenatore. Ma dall’intervento chirurgico, non si risveglio più.
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Adams francese di secondo passaporto, era nato a Dakar, in Senegal. Emigrato con la famiglia in Francia iniziò a giocare a calcio da ragazzino. Un difensore elegante, statuario, fortissimo di testa ed elegante nonostante non fosse un colosso. Adams, sposato con due figli, entrò in coma subito dopo l’anestesia, prima ancora di andare sotto i ferri. Un errore da parte degli anestesisti dell’ospedale Herriot di Lione. Il cervello rimase senza ossigeno per alcuni minuti: e il calciatore non si riprese mai più. Era il 17 marzo 1982.
Dopo un coma di 39 anni è morto nella sua casa di Nimes a causa di un collasso cardiocircolatorio. Non rispondeva agli impulsi “anche se di tanto in tanto sussulta se sente un rumore – diceva la moglie Berdardette che gli è stato accanto fino all’ultimo – non ha mai aperto gli occhi, non ha mai parlato, è stato alimentato solo con sondini e flebo. Una vita da vegetale”.
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Il caso di Adams finì in tribunale. Ci vollero diversi anni perché l’ospedale e il suo staff fosse condannato con un risarcimento risibile di un migliaio di franchi dell’epoca, circa 700 euro. Per lui si mossero le sue società che contribuirono alle spese mediche fino a quando non gli venne finalmente riconosciuta una pensione di invalidità.
Nonostante l’evidenza di un coma irreversibile, la moglie rifiutò sempre l’ipotesi di una eutanasia: “Era religiosissimo, e non me lo avrebbe mai perdonato” disse la moglie.
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