Ciclismo, Lance Armstrong resta nel mirino dell’antidoping. L’ex corridore texano viene accusato di aver truffato anche con l’aiuto della tecnologia
Da quando tra la fine del 2012 e l’inizio del 2013 la verità è emersa in tutta la sua squassante crudezza con la revoca di tutte le sue vittorie per uso reiterato e sistematico di sostanze dopanti, Lance Armstrong continua a far parlare di sè e ad essere oggetto di accuse di vario tipo. Il 49enne ex corridore texano, capace di inanellare sette Tour de France cosecutivi poi cancellati dall’UCI (Unione Ciclistica Internazionale), viene nuovamente tirato in ballo da Jean-Pierre Verdy, ex capo dell’Agenzia antidoping francese dal 2006 al 2015.
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Nei giorni scorsi anche il figlio 21enne dell’ex ciclista americano, Luke David Armstrong è finito nell’occhio del ciclone: il giovane è stato infatti arrestato con l’accusa, gravissima, di violenza sessuale perpetrata nel 2018 ai danni di una ragazza di sedici anni. Episodi di estrema gravità che si sommano e che contribuiscono a gettare altre inquietanti ombre sulla vita di Armstrong.
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L’ultima grave illazione avanzata nei suoi confronti è se possibile quasi peggiore dell’accusa di doping. L’ex capo dell’antidoping francese, Jean-Pierre Verdy, sostiene che Armstrong per migliorare le sue prestazioni avrebbe fatto ricorso anche ad aiuti di tipo tecnologico: “Credo che avesse un motore sulla bici”.
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Verdy non va molto per il sottile e subito entra nel dettaglio: “Ho ancora in testa le immagini di una tappa di montagna dove lasciò tutti indietro. Alla fine della tappa chiamai tutti gli specialisti che conosco e loro non riuscivano a capire come fosse possibile una prestazione del genere, anche con l’EPO. Qualcosa non andava – sottolinea con una certa enfasi – e tutti gli specialisti mi hanno detto la stessa cosa. Tutte persone dell’ambiente, che conoscevano bene la gara. Non era l’EPO a fare la differenza”.
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